Amo immaginare la
mia famiglia così come la desiderava mio nonno Imerio, padre di mio
padre.
Il nonno era nato
a Casalbuttano, per la precisione a San Vito, provincia ovest di
Cremona; parlava un dialetto farcito di quelle che gli abitanti di
città chiamano espressioni biafole,
ovvero campagnole, triviali, in altre parole rozze. Ma anche lui,
come la nonna, che invece era nata nel quartiere dei pescatori e dei
commercianti di sale (il quartiere di S. Pietro al Porto, pieno
centro di Cremona), era cresciuto parlando italiano.
Il
quartiere dove abitava mia nonna Marga da ragazza era quello in cui
si parlava un cremonese che, come avrebbe detto suo padre, il mio
bisnonno Nino, appassionato pescatore, era il vero
cremonese. Quella lingua urlata
tra le botteghe del mercato, tra i tavoli dell'osteria in cui si
beveva il clinto (vino
tipico, ormai scomparso) in scodelle di ceramica, quella lingua che
senza difficoltà era compresa e parlata dalla vecchina per chiedere
una ricetta medica al dottore e che si estendeva dal Po al Torrazzo,
per frammentarsi in miriadi di inflessioni differenti ma sostanziali,
talvolta anche da quartiere a quartiere.
Cremona non è cambiata poi molto oggi, qualche costruzione più
recente svetta dall'orizzonte ma il nostro Torrazzo è ancora il più
alto e quel sogno che il nonno coltivava, di riunire tutte queste
sfumature dialettali in una grande cascina in cui tutti i Natali la
famiglia si sarebbe ritrovata, come se si stesse preparando a una
vacanza montana, purtroppo non si è mai realizzata.
I
miei nonni hanno abitato in città da quando si sono conosciuti, e in
particolare nel quartiere di Porta Venezia, del quale il nonno è
stato anche presidente dalla metà degli anno '80 all'inizio degli
anni '90,
ed è sempre stato un grande appassionato di dialetto, soprattutto di
poesia, infatti in quegli anni era una tradizione riunire le poesie
di ogni quartiere e farne una pubblicazione. Oggi queste raccolte
vengono pubblicate sul nostro quotidiano, che raggiunge facilmente
non solo la provincia ma anche molte zone di vacanza particolarmente
amate dalla popolazione cittadina: troviamo La Provincia (questo è
il nome della testata) a Massa-Carrara, a Bormio, nella Val Camonica
e in Trentino, meta anche delle nostre vacanze.
Ma
la storia della mia famiglia è stata molto più avventurosa e credo
che il nonno desiderasse poterla riunire tutta anche per questo
profondo motivo: i Bruneri, o forse farei meglio a chiamarli Brunner
(di cui conosciamo anche il significato etimologico: moneta
scura), non sono originari di
Casalbuttano ma del Tirolo, terra per me quasi mitica e che
rappresenta il vero ritorno alle origini. La famiglia Brunner
lavorava per gli Asburgo con il poco onorevole compito di gabellieri
imperiali e all'inizio dell'800, a causa di una rivolta, si è
ritrovata poco distante da Cremona, fuggita per sempre dalla terra
degli avi, come la chiama mio
padre. Senza più un lavoro o una patria, i Brunner si sono impegnati
e assieme alle altre poche famiglie della zona hanno potuto fregiarsi
di essere annoverati tra i fondatori del paese di Casalbuttano, dove
al tempo una cascina c'era veramente. Da gabellieri a salumieri, da
Brunner a Bruneri, una vicenda che in fin dei conti ha afflati anche
piuttosto attuali.
Siamo venuti a conoscenza di questa avvincente storia solo
recentemente, quando uno storico cremonese ha pensato di pubblicare
alcune ricerche genealogiche che illustrassero la nascita e gli
abitanti del paese. E' bastato però perché l'ultima generazione
Bruneri (io e il mio unico cugino diretto, Federico) potesse crescere
con questa consapevolezza: io ero solo una bambina quando uscì la
pubblicazione. Così il mio sogno, a differenza di quello del nonno,
si è trasformato: sarebbe splendido poter spostare la mitica cascina
Bruneri nella terra degli avi e colmare finalmente quell'esigenza di
patria che, per me l'Italia non ha mai rappresentato, anche se
riconosco Cremona come la mia casa e non solo come un punto segnato
su di una carta geografica.
La storia dei Brunner, dei miei nonni, appare anche costellata di
impegno sociale, di sacrificio, quasi un modo per dimostrare quanto
il nostro passato raccontasse poco di ciò che invece degli operosi
tirolesi possono fare per una comunità.
Sono sempre stata molto affascinata dalle storie che mi raccontava la
nonna della guerra, ma ancora più mi incantavano gli aneddoti
successivi al 1945. Mia nonna Marga, dotata di una grazia ai miei
occhi fuori del comune, era insegnante elementare e subito dopo il
diploma magistrale si era ritrovata ad insegnare italiano ai
contadini adulti, per garantire loro almeno un diploma.
Mi raccontava che i suoi primi studenti erano tutti dialettofoni e
che spesso aveva in classe padri e figli. All'esame di fine anno i
padri, temendo una brutta figura, chiedevano al dirigente scolastico
di poter essere interrogati separatamente dai propri figli e a volte,
durante le lezioni, si sostituivano a mia nonna nell'impartire le
punizioni ai più giovani.
Quando, finalmente, la nonna ha potuto partecipare ai concorsi per
insegnare alle elementari, la situazione linguistica dei suoi piccoli
alunni non era poi molto differente: i bambini parlavano quasi
esclusivamente il dialetto, figli di contadini che non si
preoccupavano di rivolgersi alla maestra con appellativi usati
normalmente tra colleghi di lavoro; un patrimonio linguistico che
tuttavia, durante i tanti corsi di aggiornamento sostenuti dalle
insegnanti, veniva additato come da salvaguardare, anche per rendere
meno traumatico ai bambini il passaggio da una lingua per la
comunicazione quotidiana (che sarebbe sempre rimasta il dialetto) e
una per la comunicazioni “ufficiali”.
Al
tempo le differenze tra le campagne e la città erano ancora molto
marcate e mia nonna, che aveva cominciato ad insegnare nelle scuole
popolari per rifugiati, lo sapeva bene. Nei temi si ritrovava a
correggere parole come balle di fieno,
in covoni, che anche a
lei stessa suonava ugualmente sbagliata (poiché covoni non
corrisponde pienamente al significato di balle di fieno).
La sua comunicazione da ragazza di città era indissolubilmente
legata a realtà completamente diverse, che non si spingevano fino a
termini considerati al tempo tecnici, come “balle”. Oggi è
parola corrente, al tempo quello che chiameremmo neostandard.
Ma
nonostante i miei nonni, spinti dai loro genitori, parlassero
correttamente l'italiano, quando si ritrovavano all'oratorio con gli
amici per le prove teatrali (attività che hanno sempre amato
moltissimo), sono stati legati al dialetto, in particolare il nonno,
quasi come questa potesse diventare una bandiera in sostituzione del
suo essere sempre e comunque un abitante di confine tra
un paese della bassa padana e una città in via di sviluppo.
Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale c'era un paese nel quale non
sentirsi più stranieri, c'era un popolo da rincuorare, da aiutare,
da accompagnare nel progresso, e il teatro non bastava, anche se era
di quelli dialettali che nulla però avevano di veramente “triviale”.
Il nonno si impegnava lavorando alle campagne elettorali per la
Democrazia Cristiana, mentre mia nonna si dava da fare al Centro
Italiano Femminile, per aiutare le giovani madri in difficoltà; si
erano fatti promotori di svariate iniziative culturali e il nonno,
che ha sempre lavorato come contabile, era andato anche a lezione di
esperanto. Si trattava di una lingua sperimentale, una macedonia di
idiomi europei prevalentemente romanzi, che mia nonna non riusciva
però a riconoscere, quando dopo le lezioni, alla sera durante la
cena, il nonno le raccontava i suoi progressi. Tentativo fallito ma
coraggioso: durante tutta la sua vita il nonno è stato un vero
figlio della modernità, anche quando questa entrava nelle case degli
italiani con le prime televisioni e le prime lavastoviglie.
Come dicevo, i nonni hanno anche amato molto il teatro: la compagnia
che si era formata attorno all'oratorio di S. Abbondio aveva anche
finito col fondare il Gruppo Studio di Teatro, che lavora ancora
oggi. Uno dei ricordi di cui mio padre mi racconta con particolare
trasporto: mentre mia nonna è cresciuta con la lirica, grazie alla
sua famiglia di musicisti e in particolare al padre, cantante
d'opera, mio padre veniva trascinato ad ogni spettacolo del Gruppo
Studio e trattato come una specie di mascotte. Nel Gruppo recitavano
molti amici della compagnia dei miei nonni, e quando loro stessi si
sono ritirati dalle scene, dopo essersi sposati, hanno cercato di
tramandare la stessa passione ai propri figli. Mio padre mi cita
spesso passi dai copioni degli spettacoli a cui ha assistito,
generalmente opere famose , classiche tradotte in cremonese (come la
Clizia o la Mandragola di Macchiavelli), ma ciò di cui si ricorda
meglio sono le caratteristiche dei vari attori, come l'amico Vinicio,
specializzato nella risata.
Negli
anni '70
è arrivato poi il teatro politico con personaggi del calibro do
Dario Fo e gli attori più giovani e promettenti del Gruppo Studio
hanno preso il volo dal nido cremonese per incontrare i teatri più
famosi d'Italia: uno di questi è Dario Cantarelli, che io stessa ho
potuto ammirare nella sua interpretazione del Don Giovanni di
Molière. In quegli stessi anni papà ha cominciato a leggere, come
faceva il nonno, la poesia dialettale, ma soprattutto a conoscerne i
poeti.
Narra il mito che Cremona sia
nata da un peto divino del grande Ercole, senz'altro i cremonesi non
sono privi di senso dell'umorismo: umorismo che i poeti
dialettali hanno conosciuto e saputo sfruttare benissimo, in effetti
non sono completamente certa che questa leggenda non sia stata
inventata proprio da loro!
Sfogliando alcuni dei volumi che conserviamo gelosamente in libreria,
ho trovato una sorta di “bestiario” cremonese (il titolo è
“Uomini Donne Bestie Burattini”) che riassume molto di quanto la
cremonesità abbia da insegnare, a partire da proverbi la cui
saggezza popolare è rimasta intatta.
Ma la mia composizione preferita è sicuramente la seguente:
El Proubléma [1]
“Gigi l'implòra :<< Dài,...jeuteme a faal--!>>
E so mader de bòtt :<< Ma và pul là!
Te tròvet chéla fina! A gh'è mia maal...!
Adèss, quand vén a casa tò poupà,
fàte insegnaa da luu che l'è bòon...
Luu l'è 'n genio...e se in tèrsa i l'ha bouciaat,
coùn chèsto l'è mia dìtt che 'l sia 'n coujòon...
Taas en moumèent...Al chì che l'è rivaat...>>
Apèna in cà, leé sùbit la g'ha fatt:
<< Té, che te 'n seèt pusèe de 'n proufessour,
varda a tò fiòol che compit i g'ha datt...
'na ròba da tra-cioùcch i genitour!>>
Luu sùbit el se légg el proublemeén,
el se fa seù i barbiis e...:<< L'è 'n gioughètt...
te sét mia bòon de faal? Dì, Gigetéen!...>>
E dopo cavaat zò tant de giachètt:
<< Vè mò chi, dèrv le ouréce e stàme atèent.
Dòon: trénta goùsse,... bèh, vedoùm,... però,...
trènta al minuut,...ma gh'è 'n'incounvenièent;
gh'è 'l treucch de la mezz'oùra,...eèl véra o no?
Aloùra se diviid,...chést l'è sicuur;...
se diviid la mezz'oùra...e dìme,...in quaant?
Rispònd!... Jeu, caar putéll, 'ma te séet duur!
Me veèt a scòla per restaa ignuraant?>>
<< Ma puopà, ghe vèl mia 'na divisiòon...>>
<< E' sa ghe voòl aloùra? Dimel té
coùma se fa...Cicìara sapientoòn,
o spétet pròpia che te 'l dìza mé?!>>
Intant el fa le còle in seù la fròont
e vergòtt ghe rouzèga 'ma 'l sentèss
che la moujeér e 'l fiòol i stèss lé pròont
a moundàghe 'l servéll coùn en proucèss...
Che l'avilìss, adèss, l'è peu al quesiit,
le so gòusse, i minuut e teutt el rèst,
l'è 'l silènsi de tomba, apesantiit
dal fatto che 'l pòl mia ciapaa 'n pretèst
per traas fòra d'impìcc...e còun dispètt::
<< Dii a la maestra che mé foò 'l fourneèr
e che se a leé ghe pìssa el rubinètt,...
la coùra sùbit a ciamaa 'l troumbeèr!>>
L'autore è Camillo Colli-Lanzi, poeta benemerito di Cremona, nonno
di un grande amico di mio padre, che ricorda quando il poeta si
ritirava nel suo studio per scrivere e si riusciva ad intuire quanto
fosse prossima la pubblicazione di uno suo nuovo volume.
La figlia del poeta, Franca, donna di grande carattere, anarchica
atea e dalla grande umanità, aveva sposato il dottor Uggeri, uno dei
medici di famiglia più amati della città, uno dei medici che non si
preoccupavano di specificare i sintomi ai propri pazienti ma che
preferivano chiedere “l'à gha vist, sieura, che l'à gha
mia trà sò?!” (ha visto, signora, che non ha vomitato?!).
Anche la nonna ha uno splendido ricordo di questa bizzarra famiglia:
lui era cattolico convinto, lei l'esatto opposto, ma hanno passato
tutta la vita insieme rispettandosi profondamente. Ho conosciuto
anch'io la signora Franca non molto prima che ci lasciasse: accanita
fumatrice,magrissima e dall'aspetto fragile come un giunco, ma sempre
molto agile, serviva in una delle ultime osterie della città, di
proprietà del figlio, molto frequentata e amata dai giovani.
Anche mio padre, come i suoi genitori prima di lui, ha sempre parlato
italiano in famiglia, portandomi però sempre l'esempio del dialetto
della nonna Marga come del miglior cremonese con il quale potessi
confrontarmi. Abbiamo anche un vecchio vocabolario di
cremonese-italiano, regalato alla nonna dalla signorina Tomè,
un'anziana maestra elementare, molto devota, che la nonna aveva
conosciuto ancora prima di cominciare a insegnare. Per me è sempre
stato normale sentir parlare in casa una lingua mista di dialetto e
italiano, fin da piccola non faticavo a riconoscere le due lingue,
senza confondermi nell'uso di una o dell'altra. Leggevo, anni fa, che
questa è una naturale peculiarità delle persone bilingue, benché
l'italiano rimanga la lingua prevalentemente utilizzata in casa e con
gli amici.
In effetti, anni fa, mi sono cimentata nel tentativo poetico di
rinominare le icone sullo schermo del mio computer, da inglese a
cremonese. Il risultato è stato quanto mai originale, salvo scoprire
in seguito che la stessa impresa era già stata compiuta da qualche
creativo della Lega Nord (che non ho mai sopportato). All'inizio
faticavo anche io nel riconoscere certi programmi e funzioni, ma
fortunatamente, per ovviare a questo inconveniente, continuavo a
riconoscerne il disegno. Risultato comunque gratificante: il
cestino si trasformò in cestèen, la cartella dei documenti
in cartèla per i foij, il browser internet in cartina
per la navigasiòn, l'icona di MSN (un programma utile per
contattare amici e telefonare) in el tèlefono, il programma
antivirus in el doùtour (il dottore).
Da bambina ho cominciato a leggere piuttosto presto ma durante gli
anni dell'asilo mio padre preferiva inventarsi storie da raccontarmi
piuttosto dei soliti libri di favole, quelli avrei avuto da sola il
tempo di leggerli. Mi ricordo ancora i nomi dei personaggi che papà
si inventava e a cui io davo un corpo, un colore e una voce: c'erano
Sciurpa e 'Rpapà, che mi hanno accompagnata ancora molti anni dopo,
quando ormai leggevo libri e fumetti. Vivevano ovviamente in un
bosco incantato, dove c'era una casetta letteralmente aggrappata al
grosso ramo di un albero, da cui pendevano liane magiche. Non ricordo
purtroppo le tante avventure di questi due strambi amici pelosi, un
vero peccato! Col senno di poi sarebbe stata una bella idea
scriverle.
Ho scoperto solo recentemente che
Sciurpa non era un parto originale di mio padre ma di Massimo
Bergonzoni, un famoso comico italiano, grande inventore di nomi
(Sciurpa, in particolare, veniva da una canzone tipica del nord, una
canzone politica dialettale che si intitola “Sciùr
pardùn, da li beli
braghi bianchi”, “Signor
padrone, dai bei calzoni bianchi”), ammetto che la cosa mi ha un
tantino delusa...Per non parlare poi dei giochi di parole che mio
padre e mio zio si inventavano da piccoli e che anche io e mio cugino
abbiamo fintino con l'adottare: i campari
erano i riflessi di luce che si proiettavano sulle pareti, filtrati
dalle persiane, durante il pisolino pomeridiano, il pansefà
era una ringhiera di legno che
il nonno aveva costruito perché i nipoti non cadessero mentre si
sporgevano dalla finestra, il caciuè buco
invece era il loro vecchio seggiolone. Non sono mai riuscita a
emulare tanta fantasia, ma ricordo che da piccola chiamavo
ghiri-ghiri il
solletico.
La nonna si arrovella ancora oggi nel tentativo di comprendere
l'etimologia di questo misterioso gergo familiare, inutilmente. Penso
che sia proprio il fascino di cui sono cariche queste parole segrete
a costituire la loro incredibile forza. Possedere un proprio
vocabolario rappresenta una ricchezza inestimabile per una famiglia,
che si spiega solo calato in quel magico contesto.
Ricordo anche la ninna- nanna che mio padre mi cantava dopo avermi
rimboccato le coperte, una canzone di Angelo Branduardi, “La Luna”:
“Un giorno all'improvviso, la luna si stancò
di guardare il mondo di lassù.
Prese una cometa, il volto si velò
e fino in fondo al cielo camminò.
Che sorpresa fu,
che la bianca distesa,
non fosse neve.
Ma eran solo sassi e i piedi si ferì,
piangendo di nascosto lei fuggì.
Affrontare il mondo a piedi nudi non si può
e dall'alto a spiarlo lei restò.
Che sorpresa fu,
che la bianca distesa,
non sia neve.”
Quando, nel corso di teatro che sto frequentando, mi è stato chiesto
di recitare una poesia che riuscissi a ricordare a memoria, una
poesia che rappresentasse qualcosa di veramente importante per me, ho
recitato il testo di questa canzone. Mio padre, carezzandomi la punta
del naso con il dito, me la cantava sottovoce e a volte, certo che un
giorno sarei giunta da sola a comprenderne il senso, recitava invece
alcune poesie del poeta cileno Pablo Neruda.
Molte altre canzoni hanno accompagnato la mia infanzia, soprattutto
italiane: da piccola avevo una vera e propria cotta per uno dei
personaggi emergenti del varietà italiano, Fiorello. Sono poi
arrivati Lucio Dalla, Gino Paoli, Mina, una delle personalità della
mia città e Ivan Graziani con la sua “Lugano Addio”.
Questa
canzone racconta di un posto che, nelle storie che mio padre fece
seguire alle avventure di Sciurpa e 'Rpapa, rappresenta una tappa
importantissima per quelle che sono state le lotte politiche a cui,
da ragazzo, prese parte. In realtà, il testo da cui è tratta la
canzone di Graziani, è molto più antico: “Addio a Lugano” di
Pietro Gori, composto nel lontano 1895.
Gori la scrisse in Svizzera, dov'era dovuto riparare dopo l'omicidio
del Presidente francese Sadi Carnot, ucciso da Sante Caserio. Era
stato infatti fermato dalla polizia crispina, nel corso di una vasta
operazione repressiva contro anarchici e socialisti, con l'accusa di
essere il mandante "spirituale" del delitto, in quanto
amico e difensore del Caserio. Costretto all'emigrazione, si trasferì
a Lugano e, sfuggito a un misterioso attentato (gennaio 1895), venne
espulso dalla Svizzera stessa insieme con altri dodici esuli: fu
allora che ne scrisse le parole.
“Addio Lugano bella
o dolce terra pia
scacciati senza colpa
gli anarchici van via
e partono cantando
con la speranza in cor.
E partono cantando
con la speranza in cor.
per voi lavoratori
che siamo ammanettati
al par dei malfattori
eppur la nostra idea
è solo idea d'amor.
Eppur la nostra idea
è solo idea d'amor.
Anonimi compagni
amici che restate
le verità sociali
da forti propagate
è questa la vendetta
che noi vi domandiam.
E questa la vendetta
che noi vi domandiam.
Ma tu che ci discacci
con una vil menzogna
repubblica borghese
un dì ne avrai vergogna
noi oggi t'accusiamo
in faccia all'avvenir.
Noi oggi t'accusiamo
in faccia all'avvenir.
Banditi senza tregua
andrem di terra in terra
a predicar la pace
ed a bandir la guerra
la pace per gli oppressi
la guerra agli oppressor.
La pace per gli oppressi
la guerra agli oppressor.
Elvezia il tuo governo
schiavo d'altrui si rende
d'un popolo gagliardo
le tradizioni offende
e insulta la leggenda
del tuo Guglielmo Tell.
E insulta la leggenda
del tuo Guglielmo Tell.
Addio cari compagni
amici luganesi
addio bianche di neve
montagne ticinesi
i cavalieri erranti
son trascinati al nord.
E partono cantando
con la speranza in cor.”
Recentemente, dalla
stessa Svizzera, è giunta una proposta che ha il sapore di una
manovra anti-crisi: la possibilità di firmare una petizione grazie
alla quale annettere la Lombardia alla Svizzera, poiché regione
molto produttiva. Ho sempre pensato che sarebbe stata utile
un'esperienza lavorativa in Svizzera (posso affermare di annoverarla
tra i miei obiettivi più prossimi), mi domando solo quale potrebbe
essere il risultato. L'universo lombardo riassume piuttosto bene ciò
che l'Italia, storicamente e culturalmente divisa (quello che
costituisce la sua vera ricchezza, a mio parere), ha rappresentato
per le potenze europee. Così il cremonese e il milanese, abituati al
passaggio di potenze straniere, sono diversi dal bergamasco e dal
bresciano, di influenza veneta.
Il lombardo
rappresenta bene ciò che dicevo prima circa l'abitante di confine,
senza però essere per questo un nazionalista: forse potrebbe
adattarsi in poco tempo ad essere svizzero, poiché è difficile,
pensandoci bene, definirne un'identità, una vera identità lombarda.
Cremona è passata alternativamente in mano ai francesi, agli
spagnoli e agli austriaci (e il suo dialetto lo dimostra ampiamente),
e per lo stesso motivo ai cremonesi piace guardare a questi popoli
come a invasori. Non ho mai capito, ai miei concittadini, da quale
delle due parti piaccia davvero stare, quanto a me, questa non è che
una delle caratteristiche per le quali amo molto la mia città.
Il francese è stata la prima lingua
“ esotica” con la quale mi sia confrontata. Già prima di
cominciare le elementari, la nonna mi cantava le canzoncine in
francese e il primo viaggio che ho intrapreso senza i miei genitori è
stato in Alta Savoia, durante una vacanza studio. Avevo dodici anni e
non ero ancora così consapevole dell'importanza del dialetto nelle
comunicazioni: posso sinceramente affermare che se non l'avessi
conosciuto così bene, mi sarei trovata molto più in difficoltà nel
porgere le mie scuse ai tanti ragazzini francesi sui quali rovinavo
investendoli alla patinoire,
la pista di pattinaggio su ghiaccio alle quale ci portavano gli
insegnanti che ci ospitavano ad Annecy.
Da parte di madre ho anche sangue pugliese e in proposito ho un
simpatico aneddoto da raccontare: la famiglia di mia madre ha
raggiunto Cremona subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, il mio
bisnonno era ciabattino ed è morto senza poter più tornare al suo
paese natale, del quale parlava spessissimo a mio padre, ancora prima
che i miei genitori si sposassero. Mia madre però conosceva molto
bene i cugini rimasti a Putignano, un paesino dell'interno, situato
nelle basse murge pugliesi, vicino a Bari, dove fin da piccola ho
sempre chiesto di poter andare in vacanza. Ebbene, sono stata
finalmente accontentata tre anni fa, quando io, mia madre, mia nonna
e mia zia abbiamo intrapreso un epico viaggio in treno per
raggiungere il sud.
Oltre al clima estivo, completamente diverso dal nostro (quindi molto
più gradevole di quello della pianura padana), mi sono confrontata
con una nuova cucina e soprattutto con un dialetto completamente
diverso dal mio. Fin dal primo giorno dal nostro arrivo, con i cugini
più giovani (figli dei cugini di mia madre), abbiamo cominciato a
confrontare, vocabolario alla mano, parola per parola, tutto il
repertorio cremonese e putignanese, fino a giungere alla pietra
miliare del vernacolo: gli scioglilingua!
Per l'occasione ne avevo scelto uno
simile anche nel dialetto milanese: “Me tachèt i tàac? Me,
tachàate i tòo tàac a te? Tachete te i tòo tàac!”
(letteralmente: “Mi attacchi i tacchi? Io, attaccare i tuoi tacchi
a te? Attaccati da solo i tuoi tacchi!”). A loro sembrava
difficilissimo e hanno rilanciato con questo, che è stata più o
meno la trascrizione che mi hanno offerto perché riuscissi a
pronunciarlo: “C' na ma jeie ja ma nen, c' na na ma jeie, nan jam
jen!” (“Se vuoi scendere, scendi, se non vuoi scendere, non
scendere!”). Due settimane di ripetizioni continue non sono
bastate, ma con orgoglio sono stata eletta cremonese del
tacco, conclusione che va a
perorare la causa secondo la quale i cremonesi siano persone
particolarmente adattabili, cittadini del mondo.
Un po' come molti parenti della famiglia di mia nonna Marga, emigrati
addirittura in America. Un paio di anni fa, uno dei nostri tanti
cugini, ha organizzato una rimpatriata in grande stile, invitando
anche il parente americano più anziano: Frank, giunto in Europa per
la prima volta durante lo sbarco in Normandia. In occasione del
viaggio in Italia, Frank è stato ricevuto in Comune dal Sindaco,
esibendo una maglietta con la scritta “I Love Cremona”.
Mentre il mio trisavolo, anche lui cantante d'opera, era morto
giovanissimo a New York, durante una tournèe lirica e di cui io ho
visto solo la foto sulla targa commemorativa al nostro cimitero
monumentale.
Nonostante il nonno Imerio, fine
diplomatico, sia morto ormai da anni, seguendo la medesima sorte di
buona parte del nostro ramo familiare di Casalbuttano, in casa nostra
non manca una zia adottiva che continua a ricordarmi quanto le
sfumature dialettali tra cremonese e casalbuttanese siano differenti,
a partire dagli aggettivi numerali: eun (cremonese
per uno) e veun (corrispondente
casalbuttanese), o dalle parti del corpo: òcc
(cremonese per occhio) e oùcc (casalbuttanese).
Dove il cremonese appare più fine,
meno sguaiato, più fighèt (eccessivamente
raffinato, stucchevole), il dialetto di Casalbuttano si arricchisce
di espressività, senza mai perdere però quel contatto forte con il
territorio che ha segnato la sua storia.
Notizie
certe sull'esistenza dell'abitato di Casalbuttano arrivano dal XI e
dal XII secolo, epoca della quale si sa che in paese fu eretto un
castello, demolito però nel 700. Il paese fu dato alle fiamme nel
1212 durante una battaglia tra le truppe milanesi e quelle di
Cremona. Nel 1627 in piena dominazione spagnola,
il paese fu assegnato in feudo alla famiglia Schinchinelli, che
possedeva parecchie terre nella zona, mentre dal secolo successivo
sino a tutto l'800 si registrò l'ascesa di due importanti e nobili
famiglie, gli Jacini e i Turina, legati sia all'attività agricola in
quanto proprietari di vasti appezzamenti di terreno e numerose
cascine, sia e soprattutto all'attività industriale che andava
imponendosi in quel tempo: la lavorazione della seta. In paese
risultavano attivi, a metà del XIX secolo, quattro filande a vapore
per il trattamento dei bozzoli. L'attività tessile era la principale
fonte di occupazione per gli abitanti del paese. Nel 1867 i due
comuni di San Vito (da cui proviene storicamente la famiglia del
nonno) e Polengo, fino ad allora autonomi, vennero soppressi ed
aggregati a Casalbuttano. Il comune assunse quindi la denominazione
di Casalbuttano ed Uniti.
Ripensando
all'originalità del nostro territorio, che spero di aver in qualche
modo ricostruito in questo racconto, non posso concludere senza
ammettere che anche io continuerò ad essere un'abitante di confine,
cosa questa che non ha però a che fare con il Tirolo: la mia è
infatti l'ultima casa della regione, costruita sulla riva del nostro
fiume Po e collegata all'altra sponda da un grande ponte. Esattamente
al centro del ponte è posto il confine tra la provincia di Cremona e
quella di Piacenza, tra il cremonese bròt
e il piacentino brotlèin
(brutto), tra il cremonese bèl
e il piacentino blèin
(bello),
tra il buon salame cremonese con l'aglio e la patria dell'aglio
stesso (Monticelli d'Ongina, uno dei primi paesi passato il confine),
tra un'influenza spagnoleggiante più sbarazzina e una francese più
snob: da qui la storica rivalità tra le nostre due province.
[1] Il Problema - “Gigi
implora [sua madre] :<< Dai, aiutami a farlo!>>/ E sua
madre di botto .<<Ma per carità!/ Hai trovato quella che se ne
intende! Ah, non c'è male!/ adesso, quando arriva a casa tuo padre/
fatti insegnare da lui che è bravo/ lui è un genio...e se in terza
l'hanno bocciato/ con questo non significa [non è detto] che sia un
coglione [un ignorante]/ taci un momento...ecco, è
arrivato.>>/Appena entrato in casa lei gli dice :<<Tu che
ne sai più di un professore/ guarda che compito hanno dato a tuo
figlio/ una cosa da tirare ubriachi [matti] i genitori!>>/ Lui
subito legge il problema/ e si tormenta i baffi [li arrotola al dito]
e :<< E' un giochetto/ non sei capace di farlo? Parla,
Gigetto!>>/ Poi, togliendosi la giacca:/ <<Vieni qui ora,
apri le orecchie e stai attento a me./ Dunque: trenta
gocce...vediamo...però.../ trenta al minuto...ma c'è un
inconveniente/ c'è il trucco della mezz'ora...è vero o no?/ Allora
si divide...questo è sicuro/ si divide la mezz'ora...e dimmi...in
quanto?/ Rispondi! Oh, caro bambino, ma quanto sei duro [di
comprendonio]!/ Ma vai a scuola per restare ignorante?>>/ <<
Ma papà non ci vuole una divisione...>>/ << E cosa ci
vuole allora? Dimmelo tu/ come si fa....parla, sapientone,/ o aspetti
proprio che te lo dica io?!>>/ Intanto cominciano a colargli
delle gocce dalla fronte,/ e qualcosa lo stuzzica ma sa che/ la
moglie e il figlio sono pronti/ ad aggredirlo [letteralmente: a
montargli il cervello]
con una polemica [processo].../ Ciò che lo avvilisce ora, non è più
la domanda del problema,/ le sue gocce, i minuti e tutto il resto,/
ma è il silenzio di tomba, appesantito/ dal fatto che non può
trovare un pretesto/ per trarsi [fuori] d'impiccio e con dispetto:/
<< Dì alla maestra che io faccio il fornaio/ e che se le perde
[piscia] il rubinetto.../ corra subito a chiamare l'idraulico
[letteralmente: l'uomo
dei tubi!>>”
Satire e no, Poesie in
dialetto cremonese,
Camillo Colli-Lanzi, Editrice Convivio Letterario, Milano
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