martedì 22 maggio 2012

Macondo - parte I


Amo immaginare la mia famiglia così come la desiderava mio nonno Imerio, padre di mio padre.
Il nonno era nato a Casalbuttano, per la precisione a San Vito, provincia ovest di Cremona; parlava un dialetto farcito di quelle che gli abitanti di città chiamano espressioni biafole, ovvero campagnole, triviali, in altre parole rozze. Ma anche lui, come la nonna, che invece era nata nel quartiere dei pescatori e dei commercianti di sale (il quartiere di S. Pietro al Porto, pieno centro di Cremona), era cresciuto parlando italiano.
Il quartiere dove abitava mia nonna Marga da ragazza era quello in cui si parlava un cremonese che, come avrebbe detto suo padre, il mio bisnonno Nino, appassionato pescatore, era il vero cremonese. Quella lingua urlata tra le botteghe del mercato, tra i tavoli dell'osteria in cui si beveva il clinto (vino tipico, ormai scomparso) in scodelle di ceramica, quella lingua che senza difficoltà era compresa e parlata dalla vecchina per chiedere una ricetta medica al dottore e che si estendeva dal Po al Torrazzo, per frammentarsi in miriadi di inflessioni differenti ma sostanziali, talvolta anche da quartiere a quartiere.
Cremona non è cambiata poi molto oggi, qualche costruzione più recente svetta dall'orizzonte ma il nostro Torrazzo è ancora il più alto e quel sogno che il nonno coltivava, di riunire tutte queste sfumature dialettali in una grande cascina in cui tutti i Natali la famiglia si sarebbe ritrovata, come se si stesse preparando a una vacanza montana, purtroppo non si è mai realizzata.
I miei nonni hanno abitato in città da quando si sono conosciuti, e in particolare nel quartiere di Porta Venezia, del quale il nonno è stato anche presidente dalla metà degli anno '80 all'inizio degli anni '90, ed è sempre stato un grande appassionato di dialetto, soprattutto di poesia, infatti in quegli anni era una tradizione riunire le poesie di ogni quartiere e farne una pubblicazione. Oggi queste raccolte vengono pubblicate sul nostro quotidiano, che raggiunge facilmente non solo la provincia ma anche molte zone di vacanza particolarmente amate dalla popolazione cittadina: troviamo La Provincia (questo è il nome della testata) a Massa-Carrara, a Bormio, nella Val Camonica e in Trentino, meta anche delle nostre vacanze.
Ma la storia della mia famiglia è stata molto più avventurosa e credo che il nonno desiderasse poterla riunire tutta anche per questo profondo motivo: i Bruneri, o forse farei meglio a chiamarli Brunner (di cui conosciamo anche il significato etimologico: moneta scura), non sono originari di Casalbuttano ma del Tirolo, terra per me quasi mitica e che rappresenta il vero ritorno alle origini. La famiglia Brunner lavorava per gli Asburgo con il poco onorevole compito di gabellieri imperiali e all'inizio dell'800, a causa di una rivolta, si è ritrovata poco distante da Cremona, fuggita per sempre dalla terra degli avi, come la chiama mio padre. Senza più un lavoro o una patria, i Brunner si sono impegnati e assieme alle altre poche famiglie della zona hanno potuto fregiarsi di essere annoverati tra i fondatori del paese di Casalbuttano, dove al tempo una cascina c'era veramente. Da gabellieri a salumieri, da Brunner a Bruneri, una vicenda che in fin dei conti ha afflati anche piuttosto attuali.
Siamo venuti a conoscenza di questa avvincente storia solo recentemente, quando uno storico cremonese ha pensato di pubblicare alcune ricerche genealogiche che illustrassero la nascita e gli abitanti del paese. E' bastato però perché l'ultima generazione Bruneri (io e il mio unico cugino diretto, Federico) potesse crescere con questa consapevolezza: io ero solo una bambina quando uscì la pubblicazione. Così il mio sogno, a differenza di quello del nonno, si è trasformato: sarebbe splendido poter spostare la mitica cascina Bruneri nella terra degli avi e colmare finalmente quell'esigenza di patria che, per me l'Italia non ha mai rappresentato, anche se riconosco Cremona come la mia casa e non solo come un punto segnato su di una carta geografica.

Tra Pil, consumi e spesa pubblica: ma a che serve lo Stato?


Una serata passata al tavolo di un pub, una birra, quattro chiacchiere con gli amici, atmosfera rilassata (stranamente perché era Natale, ma sapete, con questa crisi...!), un tovagliolino sul quale mai ci saremmo immaginati di metterci a discutere formule matematiche e libertà. Ebbene: è successo!
Attorniati dal baccano del locale, io e Tom parlavamo del più e del meno mentre il barista dimenticava la penna sul nostro tavolo e io cominciavo compulsivamente a giocarci per passare il tempo. Non contenta scarabbocchio qualcosa su un tovagliolo e questo forse fa scattare qualcosa nella mente di Tom, che fino a poco prima mi stava parlando della chiusura dell'iva di novembre in ufficio. Così è nato l'articolo di seguito, che non cambierà il panorama delle teorie economiche, ma certamente apporterà il proprio contributo, in un tragico periodo storico durante il quale nulla appare di poca importanza e ogni rimando al passato si rivela essere incredibilmente attuale.
Lui stesso mi ha poi raccontato la celebre teoria della curva di Laffer che, leggenda vuole, fosse stata spiegata in un locale pubblico, con un tovagliolo e una biro.
Non abbiamo la pretesa, con questo articolo, di svelare scoperte sensazionali, anzi: l'abbiamo scritto proprio perché l'ovvietà giace sotto gli occhi di tutti tutti i giorni e noi stiamo provando ad osservarla davvero, questa ovvietà.
Ci siamo domandati: ma ai keynesiano serve davvero lo Stato?

Lezioni libertarie - Sullo Stato


La legge nasce con l'intento di tutelare i diritti naturali dei più deboli e punire chi non li rispetta.
Senza entrare nel merito dell'identità del diritto di natura, si deduce quindi che tutti, o almeno la maggior parte, dei soggetti che subiscono la legge siano potenzialmente pericolosi e capaci di difendersi da soli.
Lo Stato si avvale della legge per garantire ai propri cittadini strade, abitazioni, scuole, ospedali, finanche divertimenti più sicuri. Che succede però quando i rapporti di forza si invertono? Quando lo Stato comincia ad usare la legge per tutelarsi? Da chi si deve difendere lo Stato?
Dai criminali, esattamente come i suoi cittadini. Questi criminali si chiamano evasori fiscali e lo Stato ci fa credere che siano pericolosi anche per noi perché lo Stato siamo noi.
Ma chi dovrebbe garantirmi di poter far trovare il pane sulla tavola ai miei figli ogni giorno? Lo Stato, che ci deruba in virtù della caccia all'evasore? Che cerca di convincerci che sia giusto pagare le tasse perché quel pane, prima di essere del panettiere che me l'ha venduto, è del “cittadino panettiere”, la cui attività necessita di guadagno per pagare le tasse allo Stato che ne legittimano l'esistenza? E' esagerato quindi, pensare che se lo Stato necessita di leggi per tutelarsi, sia diventato il soggetto debole?!

Qualche giorno fa mi è capitato di sfogliare un saggio dedicato a Socrate, mentre cercavo materiale per alcuni studenti che mi hanno chiesto delle ripetizioni in filosofia, e mi sono ritrovata a confrontarmi con il Socrate “uomo”, con il padre della filosofia, la cui vita ci permette di comprendere le motivazioni che lo portarono alle sue scelte: mai nessuno, prima di lui, fu tanto coraggioso (o coerente) da affrontare le accuse mosse dal Senato ateniese, preferendo la morte all'esilio.
Socrate venne accusato di essere “nemico della Città” e solo da pochi venne invece riconosciuto come “filospartano e nemico della democrazia corrotta”*, braccio destro della politica.

Lezioni libertaria- Sulla democrazia (e altre leggende)


Pensiamo forse di vivere in "democrazia"? Ma lo sapete cosa è riuscita a fare la democrazia fino a questo punto?! Sicuramente è riuscita a farsi sopravvalutare.
Stando alla definizione del vocabolario, il termine appare ammantato da positivita' e melanconia, è qualcosa che dovrebbe farci bene, farci sentire tutti uguali...tutta colpa del romanticismo! Ma il peggio non è dato neanche da questo. Servendomi delle parole di un grande pensatore dell'autonomia quale è Hoppe: "Democracy has nothing to do with freedom. Democracy is a soft variant of communism, and rarely in the history of ideas has it been taken for anything else”. La democrazia non ha nulla a che fare con la libertà, è una variante soft del comunismo e raramente nella storia delle idee è stata considerata diversamente. Nella storia sappiamo anche noi quale sia stato il suo successo, purtroppo pero' i male informati a suo carico sono ancora troppi e oggi si stupiscono di come, in nome della suddetta, si possano legittimare rincari, frodi, furti. Sappiamo anche come sia andata a finire con il comunismo?
Se siamo sull'orlo della guerra civile, cara ai catastrofisti, che ancora non hanno capito che un sistema come questo è stato progettato per durare, attraverso la famosa legittimazione di atti normalmente considerati criminali (come ogni dittatura che si rispetti), è perché ci si ostina a sostenere che sia giusto e necessario sacrificare il cittadino per salvare la democrazia.
Ma come può, ciò che dovrebbe tutelarci, vivere della nostra sopravvivenza? Non trovate ci siano, a questo proposito curiose assonanze con forme di governo dalle quali la nostra "democrazia" ha promesso di difenderci?
Forse nessuno nella storia si è mai trovato davvero a vivere in una "democrazia", dato lo scarso impegno idealista dei cittadini che non si pongono il problema di comprenderne il reale significato, in potenza non necessariamente cattivo, solo imperfetto, diciamo pure impreciso (almeno in occidente). Non andiamo troppo lontano ed esaminiamo la Costituzione, principio guida dello stato italiano, testo grandemente sottovalutato, che qui però dimostra la propria desolante debolezza e impotenza.
L'articolo 52 (Titolo quarto) in particolare fa uso di termini poco appropriati per quella che era l'idea ateniese di democrazia, ben diversa dalla sua applicazione moderna. "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino." Cos'è "patria" e perché "sacro",in virtù di cosa? Quella di Bakunin forse, stessa lingua-stessa gente-stessa storia ma niente bandiera? No, nemmeno quella perché la bandiera in Italia c'è eccome e ci si ricorda del suo significato solo quando fa comodo.
"Il servizio militare è obbligatorio (...)" ora non più ma non mi sembra che il carattere d'obbligatorietà di questa norma lasci particolare spazio alla libertà personale, pur non pregiudicando la successiva carriera lavorativa (che, tempo un solo articolo e diviene fonte di ricchezza economica per lo Stato, attraverso un altro obbligo,quello del pagamento delle tasse).
E ancora "L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica." Vediamo di soffermarci su ogni singolo termine: con "spirito" eccoci tornati al carattere trascendente della democrazia, che dovrebbe invece rappresentare la più terrena delle idee, essendo per definizione il governo del popolo. Quando il termine "democratico" segue un concetto come quello di spirito, dobbiamo forse pensare che tale idea ci sia stata ispirata da un'entità divina? Vero è che l'Italia è uno stato laico a tolleranza religiosa, ma mescolare sacro e profano non sempre è un bene, sicuramente a livello di comprensione. Ciò non disturberebbe ma i primi semi democratici provengono da una realtà ben lontana e molto smaliziata in materia divina (basti pensare ad uno dei protetti di Pericle, Anassagora eretico ante litteram)... Non saprei dire se sia effettivamente un bene essere giunti a comporre un testo utile e concreto e che di spirituale dovrebbe avere poco, inserendovi concetti tanto astratti. Sarebbe sicuramente un bene se fossimo capaci di gestirlo.

E questo famigerato divin-concreto "spirito democratico" in che rapporto si trova con la Repubblica? Il testo dice che "si informa", forse il passaggio più criptico di tutto l'articolo. Non "con"-forma, non "ri"-forma, ma "in"-forma. Vocabolario alla mano alla voce "informare": "dar forma" , "istruire", e quindi "dare notizia", dotare di forma e come esempio citiamo "l'anima informa il corpo". (Treccani) Non "contro" ma "per", dunque l'esercito prenderebbe forma a partire dallo spirito democratico, per la sacra difesa della Patria (o Repubblica), questo dovrebbe significare. Ebbene mi pare di aver esaurito il concetto in una riga, con le medesime parole, senza aver spiegato in realta' nulla più dell'articolo stesso, ma sicuramente in una forma più retorica.

Possiamo tutti essere Robin Hood!

Ho trascorso la mattina in una scuola elementare del cremasco, dove avrei dovuto affrontare alcune ore di un tirocinio che si sta rivelando essere l'esperienza più preziosa che la mia università non è stata capace di darmi. Il laboratorio musicale al quale ero stata assegnata era sospeso perchè la scuola ospitava alcuni ragazzoni inglesi che, per lavoro, raccontano fiabe ai bambini, ovviamente in inglese. Hanno raccontato la fiaba di Robin Hood, coinvolgendo i loro piccoli spettatori con coreografie e canzoni.
Ne ricordo una in particolare: "Robin Hood, Robin Hood, he's fast, he's strong and he's good. He takes money to the rich and he gives to the poor. Robin Hood, Robin Hood", faceva più o meno così.
I bambini (pochi in verità perchè la scuola è molto piccola) cantavano felici seguendo le indicazioni della valchiria bionda che raccontava loro la storia e che li invitava ad inneggiare allo Sceriffo di Notthingam come
ad un "loser". Nessuno di quei bambini si sarebbe mai sognato di credere il contrario!
Crescendo, la maggior parte di questi bambini si dimenticherà di aver cominciato ad imparare l'inglese sentendosi raccontare la fiaba di Robin Hood,si dimenticherà perchè Robin fosse così forte e furbo e buono, si dimenticherà forse anche perchè per loro fosse IL BUONO, per buttarsi tra le braccia dello
Sceriffo, senza nemmeno saperlo. Robin Hood rimarrà un'affascinante leggenda. O forse no?!
Mentre le giovani maestre si complimentavano dell'efficacia di questo metodo di insegnamento, mi sono inevitabilmente domandata perchè si raccontino fiabe ai bambini? Per insegnare loro qualcosa, ovviamente! Che lo si faccia in inglese o in italiano, queste fiabe sono sempre le stesse e raccontano sempre le stesse storie, con gli stessi personaggi, la cui bontà, il cui coraggio e impegno rappresentano un esempio a cui ispirarsi, perchè quei valori di lealtà e solidarietà rimangano immutati generazione dopo generazione. La cosa importante quindi non è il metodo, o la lingua usata, ma la speranza che questi racconti riescono a suscitare in questi piccoli esseri umani, che oggi hanno provato ad immaginarsi tutti Robin Hood, imbracciando un arco e scoccando una freccia a quel vigliacco perdente dello Sceriffo.

Non vi dirò...

Esiste forse un modo giusto per cominciare un libro, esiste una frase, un'espressione, una parola chiave? Esiste, in definitiva, qualcosa di così importante da dire che sia degno di essere scritto prima di ogni altra notizia?! Probabilmente sì ma io non ve lo dirò, in parte perchè è un segreto professionale
(se vi svelassi l'ingrediente segreto della ricetta che so cucinare meglio, e con la quale vi stupisco tutte le volte che vi invito a cena, ve la rivelerei forse?!), in parte perchè potrebbe non piacervi, in parte perchè la sapete già e potreste scriverla voi al mio posto.
Ho investito molte ore in pensieri perigliosi per costruire questo progetto, passando il tempo a farmi domande chiedendomi cosa ma soprattutto come potessi raccontarvi quel che ho da raccontarvi.
Il risultato?! Avevo così tante cose da raccontarvi che sono stata tentata spesso di lasciar perdere,
schiacciata dal senso di inferiorità e dalla sindrome da foglio bianco che gli amanti della scrittura conoscono bene.  Sapevo che la parte più difficile sarebbe stata esattamente l'inizio, soprattutto perchè aspettavo il fatidico "momento giusto", che ovviamente tardava ad arrivare. Sapevo che sarebbe stato l'inizio di qualcosa e tenevo a giocarmi bene le mie carte, con un incipit degno del suo ruolo. Sapevo anche altre cose, molte cose, ma nessuna sarebbe stata quella giusta per un incipit. In breve mi sono accorta che le cose che non sapevo dirvi erano molte più di quelle che avrei saputo dirvi, e dato che il problema era principalmente quantitativo, ho cercato a questo problema una soluzione cumulativa per non dirvi niente.
Per esempio, non vi dirò che il mio sogno da bambina era quello di fare qualcosa di grande e importante.
Non vi dirò che il mio sogno adesso, da "diversamente bambina", è ancora quello di fare qualcosa di grande e importante.