La legge nasce con l'intento di
tutelare i diritti naturali dei più deboli e punire chi non li
rispetta.
Senza entrare nel merito dell'identità
del diritto di natura, si deduce quindi che tutti, o almeno la
maggior parte, dei soggetti che subiscono la legge siano
potenzialmente pericolosi e capaci di difendersi da soli.
Lo Stato si avvale della legge per
garantire ai propri cittadini strade, abitazioni, scuole, ospedali,
finanche divertimenti più sicuri. Che succede però quando i
rapporti di forza si invertono? Quando lo Stato comincia ad usare la
legge per tutelarsi? Da chi si deve difendere lo Stato?
Dai criminali, esattamente come i suoi
cittadini. Questi criminali si chiamano evasori fiscali e lo Stato ci
fa credere che siano pericolosi anche per noi perché lo Stato siamo
noi.
Ma chi dovrebbe garantirmi di poter far
trovare il pane sulla tavola ai miei figli ogni giorno? Lo Stato, che
ci deruba in virtù della caccia all'evasore? Che cerca di
convincerci che sia giusto pagare le tasse perché quel pane, prima
di essere del panettiere che me l'ha venduto, è del “cittadino
panettiere”, la cui attività necessita di guadagno per pagare le
tasse allo Stato che ne legittimano l'esistenza? E' esagerato quindi,
pensare che se lo Stato necessita di leggi per tutelarsi, sia
diventato il soggetto debole?!
Qualche giorno fa mi è capitato di
sfogliare un saggio dedicato a Socrate, mentre cercavo materiale per
alcuni studenti che mi hanno chiesto delle ripetizioni in filosofia,
e mi sono ritrovata a confrontarmi con il Socrate “uomo”, con il
padre della filosofia, la cui vita ci permette di comprendere le
motivazioni che lo portarono alle sue scelte: mai nessuno, prima di
lui, fu tanto coraggioso (o coerente) da affrontare le accuse mosse
dal Senato ateniese, preferendo la morte all'esilio.
Socrate venne accusato di essere
“nemico della Città” e solo da pochi venne invece riconosciuto
come “filospartano e nemico della democrazia corrotta”*, braccio
destro della politica.
La moralità di Socrate si avvicinava
alle prime scuole pitagoriche e la sua “missione” contro le
apparenze care ai sofisti, erano quelle dell'esigenza di una riforma
etico-pedagogica che stava alla base delle sue critiche alla
democrazia ateniese. Una situazione molto attuale, se si hanno gli
occhi della ragione abbastanza allenati per notarla.
Vero è che per l'interpretazione di
fatti avvenuti così tanto tempo fa, la logica ci porta a considerare
tutti i fattori in gioco, le ragioni per così dire di tutti. Socrate
fu un personaggio estremamente polemico e scomodo, amato solo da
pochi, ma è grazie a quei pochi che possiamo oggi confrontarlo con
il grande cantiere sociale che fu Atene a quel tempo.
Scriveva Tucidide, nell'Atene di
Pericle:”(...) si chiama democrazia, poiché nell'amministrare si
qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza. Le leggi
regolano le controversie private in modo tale che tutti quanti
abbiano un trattamento uguale, ma quanto alla reputazione di ognuno,
il prestigio di cui possa godere chi si sia affermato in qualche
campo, non lo si raggiunge in base allo stato sociale d'origine, ma
in virtù del merito (...)”**.
A un discorso così ben confezionato ci
inchiniamo quasi più perché risale al V secolo a.C., risaltando per
la sua straordinaria modernità, che per il successo riscosso nella
storia.
Al tempo gli ateniesi erano veramente
convinti che il proprio sistema politico dovesse porsi a modello per
tutta la Grecia, soprattutto per la rivale storica Sparta. Tucidide
stesso non risparmia sulle parole “sistema” e “Stato”,
definendo la città come un “ammaestramento” per le altre genti.
Nascevano già a quel tempo le idee
moderne di dovere, giustizia e uguaglianza che sia Socrate che la
Città sostenevano ma proprio in nome delle quali si ruppe il
sodalizio.
Quanto possono, i fraintendimenti e gli
arrovellamenti filosofici, risultare disastrosi e fuorvianti!
Socrate si batteva in nome della
giustizia come uguaglianza, mentre gli ateniesi dell'uguaglianza come
giustizia. L'essere filospartano di Socrate non era dettato
dall'etica politica, non era rivolto al successo di un modello unico,
né si basava sull'affermazione della superiorità della democrazia
in quanto sistema politico. La sua era un'aperta opposizione a ciò
che era diventata la democrazia, all'aver tradito già al tempo, i
propri ideali di libertà e nobiltà d'animo di cui parlava Tucidide.
Molti figli della guerra del
Peloponneso erano morti in nome di quella democrazia che Socrate
attaccava così duramente e mai, i reduci, si sarebbero abbassati ad
ammettere la corruzione che fu il reale flagello del così detto
“governo del popolo”, che pure costituiva un'alternativa molto
avanzata alla monarchia. Ma occorreva conoscere molto
approfonditamente un altro concetto fondamentale per potersi affidare
completamente alla politica di condivisione che Atene voleva
rappresentare, quello di virtù.
Per Tucidide l'uomo virtuoso era quello
che si impegnava nella vita politica e giurava di prestare servizio
nell'esercito per difendere quanto conquistato con quel sistema
politico tanto prezioso, in caso di attacco nemico (e a ben vedere,
il suo appare un atteggiamento giustificabile).
Potremmo dire che l'uomo contemporaneo,
il nostro vicino di casa, il nostro datore di lavoro, nostro cugino,
si avvicinino all'idea di virtù che Tucidide sosteneva? Temo che la
qualità delle risposte a questa domanda non ci stupirebbe
positivamente e questo Socrate l'aveva capito molto prima di un uomo
che ancora oggi tenta ossessivamente di difendere un'idea ormai
fattasi decadente, anacronistica e dannosa per la libertà.
La virtù di Socrate andava ben oltre
il concetto di Stato e di buon cittadino, la sua responsabilità era
rivolta alla felicità dello stesso individuo che si adoperava per la
felicità dell'altro, per la soddisfazione di esigenze che dovrebbero
trovarsi al di là del bene e del male, e che soprattutto uno Stato
non si sogni di giudicare criminali perché portatrici di ricchezza
verso il singolo e non verso le sue casse.
Ad Atene le tasse non si pagavano e non
si veniva puniti per colpa della povertà (Tucidide docet), mentre
oggi le nazioni che si fregiano di esportare la cultura, sono
proprio quelle i cui cittadini non si sognerebbero mai di non pagare
finanche il biglietto del tram.
Vi ricorderete la storia di Al Capone,
incastrato non per le stragi compiute, ma per evasione fiscale, il
mezzo che la giustizia americana adotta per smascherare la corruzione
dei propri politici e personaggi di rilievo. Si può comprendere
l'immoralità di certe abitudini dei politici condannate dai
cittadini, che in loro vorrebbero poter trovare un modello
(socratico?) di integrità, ma la leva economica in nessun modo
dovrebbe essere sfruttata per spargere terrore e minacciare i propri
cittadini. Come durante il nazismo, anche adesso gli USA si avvalgono
dei “collaboratori di giustizia”: il compagno d'ufficio che spia
il proprio superiore, la signora che non si vede stampare la
ricevuta, il passeggero dell'autobus che denuncia il passeggero che
non timbra il biglietto. Ciò che si definirebbe l'esatto opposto
dell'omertà tanto nota all'Italia e agli italiani, in America chi
non paga le tasse finisce veramente in galera e questo, a quanto
pare, ai suoi cittadini piace.
In America nascono anche molte
iniziative private utili, dal sapore cooperativo e egualitario,
autarchico e libertario, a cominciare dalla nascita di Wikipedia,
l'enciclopedia libera, gratuita e aperta al contributo di tutti, a
quella del Tea Party, il movimento anti-tasse per eccellenza .
E tutto questo perché? Perché per
contrastare il clima decadente ed imparare a vivere nell'austerity
ci si rende conto che lo Stato
non basta e non è mai bastato, quindi si comincia a dare fiducia
alle iniziative telematiche che promuovono il risparmio e il riciclo,
a patto che sia libero. Come il manuale de “La sfida delle 100
cose” di Dave Bruno, ovvero come saper sopravvivere facendosi
bastare una quantità limitata di risorse, o il “Manifesto
dell'Abbastanza” di Diane Coyle, e ancora il National Swap Day, la
giornata nazionale dello scambio***. L'etica del “giusto prezzo”
scelta dal cittadino per sé stesso, anima del libero mercato.
Come è possibile
quindi, che in una nazione in cui l'iniziativa privata diventa
l'unico modo di affrancarsi dalla povertà e dall'austerità nella
quale la sovranità economica costringe i cittadini, in un paese che
tiene così in considerazione l'azione dell'individuo, capace di
tutelarsi quasi esclusivamente attraverso il denaro, quello di pagare
le tasse sia una dovere sacrosanto? Altro fraintendimento dal sapore
ateniese?
E in
Italia come ci comportiamo? Nella patria del servizio al cittadino,
delle lotte sindacali, del bunga-bunga, nella patria dei finti
moralisti e dei falsi modesti, degli idoli nazional-popolari, della
macchina del fango contro la quale i movimenti virtuali si
accontentano delle proprie “rivoluzioni” sul giornalismo libero
aprendo blog di denuncia (che lì si fermano!), nel paese del
Concerto del Primo Maggio e del mito democratico del
dopo-manipulite...la Milano “da bere” è ancora la stessa
splendida e decadente città, Roma “ladrona” lo è sempre stata
anche senza che ce lo dicesse Bossi, e la Magna Grecia non ha ancora
trovato rimedio alla questione meridionale. A parte questo c'è
qualcuno che non crede che lo Stato cerchi di tutelarci e sceglie di
non pagarle le tasse ai propri dipendenti (preferendo che questi
possano godere totalmente del frutto del proprio lavoro) , c'è
qualcuno che non se ne fa nulla dei servizi scadenti al cittadino,
che i privati sanno offrire anche senza l'intervento di ciò che la
legge ci propone come politicamente corretto, c'è qualcuno che non
pensa che la legge sia un diritto naturale, ma la proprietà sì. C'è
qualcuno che crede nella rete spontanea di collaborazione, c'è
qualcuno che crede ancora e sempre nella libertà!
*Giovanni
Reale, Socrate,
alla scoperta della sapienza umana, Bur
Saggi editire
**
Ticidide, Storia
della guerra del Peloponneso
***
Tutte
le informazioni sono reperite dal libro di Federico Rampini, Alla
mia sinistra,
Oscar Mondadori.
Articolo apparso sul sito del Movimento Libertario il 6 marzo 2012
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