sabato 15 settembre 2012

Baby-femministe, techno-provocatrici: le rivoluzionarie che si lasciano cliccare

di Camilla Bruneri


Questa volta la notizia viene dal primo numero del settimanale “F”, uscito in giugno. Ad aver colpito la mia attenzione è una cyber rivolta rosa partita da giovanissime utenti del web che, attraverso YouTube, blog privati e testate online (è proprio il caso di dirlo: e sarebbero questi i bei risultati dell'insegnamento dell'informatica nelle scuole?!), hanno cercato di sensibilizzare il mondo su tematiche economiche, alimentari e femministe.
Una domanda mi sorge spontanea: al di là della mia approvazione circa i contenuti delle iniziative di queste ragazzine, è giusto e condivisibile che minorenni appaiano come madrine cibernetiche politicamente corrette? Forse sì. Saranno però solo trovate pubblicitarie?
La prima protagonista di queste storie è la dodicenne Victoria Grant, che sul palco dell'incontro organizzato dal Public Banking Institute, a Philadelphia, ha criticato la scelleratezza dei banchieri canadesi. Il suo intervento di sette minuti ha sconvolto YouTube: il video ha superato infatti i 200mila clik, diventando una star sui siti Forbes e Financial Post. La bambina ha infatti lanciato accuse al governo e al sistema bancario del Canada, sostenendo che basterebbe eliminare le banche private, consentendo i prestiti di denaro solo da parte di aziende di credito controllate dal Governo: in pratica una nazionalizzazione del sistema bancario.
Oltre alla verve ammirevole, mi soffermerò successivamente circa i pensieri della Grant, con i quali non posso certo trovarmi d'accordo (possibile che il socialismo venga insegnato nelle scuole elementari?!), ciò che mi ha colpita maggiormente è la sconvolgente risolutezza di questa ragazzina.

mercoledì 12 settembre 2012

Dalla Russia di Putin, la rivoluzione trendy

di Camilla Bruneri


Ho recentemente parlato del controverso mondo del femminismo "al femminile" nel mio articolo "Cinquanta sfumature di noi donne: cosa c'è oltre il femminismo", e abituandomi a sfogliare le riviste femminili, nella speranza di documentare ulteriormente il fenomeno, ho scoperto che la Russia delle Pussy Riot sta collezionando un vasto laboratorio di resistenza politica supportato soprattutto dalle donne. E dagli artisti.
Dal cinema alla musica, dalle mostre alla moda, il tormentone è ovunque. Le performance isolate, come quelle del gruppo Voina (Guerra), artisti-attivisti sociali al limite del teppismo, o le «monstratzie» di Artem Loskutov a Novosibirsk regolarmente sanzionate dalla polizia, diventano cortei e flash-mob, permettendo così alla protesta di entrare nel mainstream culturale.
Ma anche la moda si fa influenzare dalla «rivoluzione hipster»: a fissare la svolta, dopo il kitsch degli Anni 90 e il «glamour» del 2000, è il blog «Moda sulle barricate» (www. fashionprotest.ru), un’idea dello stilista Aleksandr Arutiunov: «Non ci sono più dubbi, salire sulle barricate è una nuova tendenza. Questo blog parla di persone che la rendono elegante e dignitosa. Personaggi, regole di stile, e tutto ciò che può esservi in comune fra rivoluzione e moda - o il contrario, decidete voi».

sabato 8 settembre 2012

"E non sono mai andato a scuola": racconto di una serata in compagnia di Andrè Stern


Di Camilla Bruneri


Bonne soir, je suis Camilla, je suis en fille de 24 ans, je n'aime pas les bonbons et malheureusement je suis allé à l'ècole. (Buona sera, mi chiamo Camilla, sono una ragazza di 24 anni, non mi piacciono le caramelle e purtroppo sono andata a scuola.) Ho studiato per tutta la vita, cercando disperatamente di essere coerente nelle mie scelte, cercando di non perdere tempo e non lasciarmi scappare nessuna occasione (anche quelle che sarei stata più felice di lasciarmi scappare), ho diffidato ma ho accettato tante cose solo per poterle inserire nel curriculum (forse uno degli esami più difficili che la scuola non ti prepara ad affrontare) e ora che sono alla fine, ora che la vita comincia a richiedere i sacrifici più grandi (come se non ce ne fossero già stati abbastanza), ora cerco altrettanto disperatamente di disimparare.
Vorrei raccontarvi in proposito una storia, una storia che viene dalla Francia, una storia che parla anche di noi!
Andrè non cerca di convincere nessuno, né di convertirlo, non vende nulla e non racconta la storia di un metodo.
Ciò che ha vissuto vale solo per lui, che non ambisce a divenire un modello: un ragazzo come tutti gli altri, semplicemente
con un percorso diverso, il cui corso naturale non è stato disturbato. Non suggerisce nulla in proposito,
soprattutto perché non si tratta di un'abitudine molto diffusa, bensì raccoglie un vasto numero di pregiudizi a questo riguardo.
Il pregiudizio principale è quello che senza scuola non possa esistere educazione, capacità di ottenere dei risultati o
che si rimarrà analfabeti e asociali. Niente diploma ovvero niente lavoro, ma non è così. Non siamo liberi di fare scelte
personali perchè non abbiamo modo di poterci confrontare con altre alternative. Se si pensa che la scuola rappresenti l'unica risposta, ci troviamo davanti allo stesso numero di scelte lasciate da Ford quando diceva "Potete scegliere il modello d'auto che preferite purché il colore sia il nero!"
Questo è il racconto che Andrè Stern ci ha fatto durante una splendida conferenza, tenuta a Bergamo lo scorso marzo, riportato anche nelle testimonianze raccolte nel suo libro autobiografico "Et je ne suis jamais allé à l'ècole", edito dalla casa editrice francese Actes Sud. Probabile una prossima edizione italiana.
 Ho preso in prestito le sue stesse parole nell'apertura di questo pezzo, con una differenza: Andrè non è mai andato a scuola! 



Queste sono alcune domande poste ad Andrè durante la serata, spero potranno dare a molti genitori volenterosi un motivo in più per sperare in un mondo migliore.

martedì 4 settembre 2012

Alternative educative: uno sguardo all’homeschooling


Di Camilla Bruneri

Vale la pena anche analizzare un altro interessante fenomeno: l’homeschooling.
“La scuola è come una prigione. Questa frase è un eccesso? E' un'analogia? Vi dico la mia. Perché la maggior parte dei bambini non ama andare a scuola? E' ovvio: i bambini desiderano essere liberi e la scuola li priva di questo diritto fondamentale.
Tutti desideriamo essere liberi, possiamo dirlo ad alta voce, possiamo pensarlo e basta, ma è palese che, per gli esseri umani uno dei bisogni primari sia la libertà. Purtroppo per una grande porzione della popolazione italiana la scuola è un obbligo per legge: i genitori credono di non avere alternative, difficile è trovare scuole veramente libere o decidere di fare educazione parentale.
La situazione nelle scuole sta  peggiorando di anno in anno: le classi sono sempre più numerose, gli insegnanti non offrono una continuità di relazione, i momenti di svago sono tenuti al minimo, le gite cancellate per mancanza di denaro, gli atti di bullismo sono in aumento così come i casi di disturbo da deficit d'attenzione ed iperattività, dislessia e quant'altro. Vi siete chiesti come mai? I bambini a scuola non sono liberi, come credete che possano apprendere in un ambiente coercitivo?
La scuola è un ambiente anormale e artificiale. I bambini sono malleabili e sanno solitamente adattarsi, ma togliere loro la libertà li rende infelici, inattivi, incapaci di gestirsi autonomamente. Alcuni di essi si conformano, ma molti devono sopprimere il loro essere per riuscire a sopportare la routine quotidiana. Questa precoce forma si stress provoca delle conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti, ma che spesso scegliamo di ignorare o minimizzare. Per la società odierna tutti devono essere scolari e coloro che non si uniformano, bambini o adolescenti che siano, sono etichettati come problematici, incapaci, perdenti e addirittura in alcuni casi essi vengono sottoposti a medicamenti per calmierare la ribellione che deriva da questo infelice stato. Non esistono alternative alla scuola che siano socialmente plausibili.

Alternative educative: una storia Svizzera


Di Camilla Bruneri

Un parto difficile e un bambino che, con il tempo manifesta difficoltà nella parola e nel movimento. Questa è la storia di Elia, pubblicata su Vanity Fair della scorsa settimana. Il racconto a lieto fine di due genitori che hanno un bambino affetto da disprassia, una sindrome poco conosciuta in Italia. Si tratta di un disturbo della pianificazione dell'atto motorio che causa un deficit nel percorso di apprendimento e verbalizzazione. Chi ne soffre, pur essendo dotato di normale intelligenza, fatica a parlare, a usare un linguaggio adeguato al contesto, a mettere insieme gli elementi della realtà, e così diventa complicato anche correre, andare in bici, diventare autosufficienti.
Il protagonista di questa storia è Elia, un bambino che ora ha 5 anni e mezzo e che soffre di questo disturbo. I genitori, Natalia e Alessio Pizzicannella, raccontano a Vanity, di essersi trasferiti in Svizzera, a Locarno perché avevano capito che in Italia, il piccolo non sarebbe stato seguito seriamente dalle strutture pubbliche. Da settembre Elia andrà all'asilo, all'Istituto Sant'Eugenio, dove vengono seguiti anche bambini con disturbi del linguaggio e dell'apprendimento. Natalia e Alessio raccontano la sensazione di stupore provata per l'accoglienza ricevuta e l'aiuto e la disponibilità manifestati dall'Istituto e dal Supporto Pedagogico della città. Non solo: oltre alle cure (per via privata) ricevute in Italia, l’istituto svizzero ha anche consigliato alla famiglia di rivolgersi ad un osteopata craniale che, con due sole manipolazioni delle ossa craniche, ha permesso al bimbo di ricominciare a muoversi normalmente. Ora Elia sfreccia in bicicletta senza rotelle.

lunedì 3 settembre 2012

Il paradosso dei carburanti


di Tommaso Cabrini

Oggi sono finiti gli sconti carburante proposti dall’ENI, prontamente imitati da diversi concorrenti. Il risultato è stato immediato: i media si sono lanciati a parlare del caro carburanti.
Partiamo sfatando un falso mito, la colpa del prezzo dei carburanti non è di petrolieri avidi, che hanno proposto per tutta estate i loro prodotti sottocosto, o dei benzinai (anche se un po’ di concorrenza in più non fa mai male). Non possiamo neanche dare la colpa ai perfidi produttori, non ci sono squilibri gravi tra domanda e offerta che stritolino i prezzi.
Basta entrare un pochino nel problema e subito si individuano i colpevoli: lo Stato e ancora lo Stato, colpevole al quadrato!
Partiamo dalla materia prima, il barile di petrolio (in questo momento sopra i 114$/barile) è stato un crescendo continuo nell’ultimo decennio, con qualche parziale diminuzione nei momenti peggiori della crisi velocemente recuperati. E’ forse finito il petrolio? Assolutamente no, stiamo solamente vedendo gli effetti della politica inflazionista perseguita da FED e BCE, a fronte di una spropositata immissione di denaro in circolazione tutti i mercati sono saliti: azioni, bond (cioè calano i rendimenti) e materie prime.

Cinquanta sfumature di noi: cosa c'è oltre il femminismo


Di Camilla Bruneri

Cosa troviamo oltre il tacco dodici, il filo di fard e gli occhialini da intellettuale, che molte donne sfoggiano come un’uniforme? Le instancabili camminatrici del traffico, perennemente in bilico tra una crisi di nervi, le lezioni di piano del figlio e la riunione del CdA per cui lavorano?! La risposta, di una semplicità quasi disarmante, è no. Questo no non è un rigurgito femminista di un’esponente della categoria, né un tentativo di risollevare un tormentone estivo che ha, per lo meno, dimostrato di essere un sicuro investimento editoriale. Le parole della donna che sta dietro questo pezzo vengono da una riflessione quotidiana sul senso della presenza della donna nella società, che vuole essere privo di giovanilismi e falsi miti.
Proprio da questo argomento vorrei cominciare: il mito.  Sin dall’antichità alla donna è stata data una parte chiave nel misterioso teatro famigliare, che l’ha accompagnata nelle epoche dandole la riconosciuta importanza che anche oggi le viene attribuita. Con un problema di fondo però, rappresentato dalla frustrante corsa alla parità che altrettanto ha accompagnato le donne in tutte le vicende sociali che le hanno viste protagoniste.  Due miti ricorrono in questo caso: la donna focolare e colonna portante della famiglia contro il modello della suffragetta.
La donna ha voluto che il proprio ruolo di sottomessa/dipendente (del padre prima, del marito poi, in certi casi anche del datore di lavoro) raggiungesse lo status di indipendenza che nessuno, in un paese come il nostro, oggi le negherebbe. Le donne fanno parte dei consigli di amministrazione, sono imprenditrici, fanno politica e spesso sono tra le più impegnate, eleggendosi madrine di cause umanitarie in modo ammirevole. Ma il problema dell’emancipazione intellettuale delle donne rimane come uno spettro ad insidiare le vite di molte di noi, che il tracollo nervoso lo rischiano a causa dell’insensata competizione che vivono nel confronto con gli uomini.
Vorremmo rivaleggiare su di un terreno che non sentiamo nemmeno nostro, contro mentalità che hanno la sola colpa di non essere “femminili”, accampando scuse come le quote rosa che, se non dilapidano il ragguardevole lavoro delle mitologiche suffragette, quantomeno lo offendono. In quale modo? Pretendendo di considerare le donne una categoria “a rischio”, che merita di autorappresentarsi nei luoghi di potere o di burocrazia. Quest’ultimo invero è un falso mito.

domenica 2 settembre 2012

Quando il capitalismo si fa piccolo: crowdfunding



di Tommaso Cabrini

Un tempo il capitalismo era un affare per ricchi, fondare un’azienda ha sempre richiesto grandi capitali e l’innovazione finanziaria ha cercato di andare incontro agli imprenditori cercando metodi più facili di trovare denaro. Tornando indietro di qualche secolo l’imprenditore poteva contare solamente su quanto investito dalla propria famiglia o sul prestito di qualche grande banchiere.
Progressivamente si è allargato sempre più il mercato dei capitali, dando la possibilità a un maggior numero di persone di partecipare, prestando denaro o investendolo direttamente nelle aziende. Ciò è avvenuto attraverso una grande intuizione: anziché chiedere un grande finanziamento si chiede a tanti finanziatori una cifra più piccola facendo nascere così le azioni e le obbligazioni.
Se con la riforma pensionistica tutti i cileni sono diventati capitalisti, e quindi interessati al prosperare della propria economia e alla pace sociale, così è avvenuto con la diffusione nel nord America e in nord Europa della proprietà di azioni e obbligazioni emesse dalle aziende[1].
Oggi per possedere un’azione bastano pochi euro, ma parecchi costi aggiuntivi, come le commissioni e il bollo sul conto titoli rendono necessario comprare pacchetti nell’ordine di almeno un paio di migliaia di euro per rendere l’investimento potenzialmente profittevole. In fondo non tutti sono disposti a concentrare una tale cifra in un unico investimento.
Ma nel frattempo è stato fatto un ulteriore passo in avanti: internet, che permette la distribuzione di servizi ad un prezzo ridottissimo. Ecco dunque la possibilità di ridurre ulteriormente la dimensione dei pacchetti, fino ad arrivare a pochi spiccioli: il crowdfunding.
Crowdfunding (composto dalla parola crowd, folla e funding finanziamento) consiste nel raccogliere fondi destinati a specifici progetti da moltissime persone che partecipano per piccole cifre (solitamente meno di un centinaio di euro).

La nuova frontiera libertaria: il mare



di Tommaso Cabrini

Il Seasteading

Seasteading è una parola composta, che nasce dalla somma di sea + homesteading.
Il seasteading consiste nella costruzione di comunità autosufficienti in acque internazionali, in modo da poterne garantire la libertà dalle leggi nazionali.
Di fatto l’intento può essere realizzato adattando vecchie navi da crociera, ex piattaforme petrolifere, piattaforme antiaeree in disuso ma anche mezzi costruiti ad hoc o vere e proprie isole artificiali.
Esempi storici di seasteading sono il Principato di Sealand (tutt’ora esistente ed in vendita), la Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose (distrutta dallo Stato italiano) o la Repubblica di Minerva (costruita nel pacifico e conquistata militarmente da Tonga).

Il Seasteading Institute

Il Seasteading Institute è l’istituto fondato, tra gli altri, da Patri Friedman (nipote del premio Nobel Milton) nel 2008.
L’istituto intende aiutare la diffusione del seasteading attraverso diversi campi d’azione:
  • ricerca in campo legale: identificare quali leggi e accordi internazionali permettono la libertà del seasteading (come ad esempio il miglior utilizzo della la bandiera di comodo) e quali regole istituire nei seastead;
  • innovazione di business: individuare quali business si possono creare nei seastead e quali possono svilupparsi in modo maggiormente efficace ed efficiente;
  • innovazione ingegneristica: scoprire le tecnologie che permettano la costruzione di seastead a prezzi accessibili ma sicuri e con un alto livello di qualità della vita, concentrandosi anche sulla modularità dei seastead per facilitarne in futuro l’espansione;
  • incentivazione del seasteading: l’istituto intende presentare entro il 2015 il “Poseidon Award”, un premio che sarà dato al primo seastead con almeno 50 abitanti permanenti, finanziariamente autosufficiente, con abitazioni scambiate sul libero mercato e politicamente autonomo.

L’istituto ha attratto anche l’attenzione del cofondatore di PayPal Peter Thiel, che ha deciso di erogare un finanziamento di 500.000$.

Finché le tasse non ci separino: lo Stato e il matrimonio



Di Camilla Bruneri e Tommaso Cabrini

“I giovani non considerano più il matrimonio come la migliore delle relazioni: il matrimonio non è più visto come il miglior modo di relazionarsi dalle giovani generazioni. Questo è ciò che è emerso da un vasto sondaggio fatto in Gran Bretagna: le coppie che si sposano diminuiscono di anno in anno, mentre cresce il numero di chi sceglie di vivere insieme, senza sposarsi.” Queste le parole con le quali il Daily Telegraph apre l’articolo dedicato non tanto al matrimonio come fenomeno sociale, quanto ad un puro fatto di carattere morale: ad essere attaccato in questo caso non è la tendenza ad affidarsi alla ribellione alle istituzioni (quando mai!), quanto l’”egoismo globale” che porta inesorabilmente alla distruzione dell’unità familiare da parte della popolazione globale, ormai dimentica delle tradizioni.
Eppure, se ci fermassimo ad analizzare la storia, ci renderemmo conto che il matrimonio come lo conosciamo noi oggi è solo una delle tante facoltà delle quali lo Stato si sia insignito, ma la tradizione, quella vera, del matrimonio ha radici ben diverse. Al giorno d’oggi siamo abituati a vedere il matrimonio come un’istituzione collegata ad un particolare rituale, che non può che svolgersi davanti a un’autorità ed infine valevole solo perché registrato dallo Stato.
Ma come funzionava prima che lo Stato si prendesse il compito di regolare, controllare, registrare e non da ultimo tassare il matrimonio? Indubbiamente c’era la Chiesa, ma è sempre stato immutato il sacramento del matrimonio? Da queste domande è nata una piccola ricerca sulla storia del matrimonio in Europa, ma in questo viaggio dovremo partire dalla fine.
Oggi il matrimonio non può che essere contratto tra tre parti: un uomo, una donna e lo Stato; quest’ultimo dispensa diritti e doveri (secondo leggi standard) ai primi due, tant’è che non si concepisce un matrimonio che non sia stato regolarmente approvato burocraticamente. L’ inconcepibilità di un matrimonio al di fuori dello Stato ha aperto una lunga lista di rimostranze da parte di tutti coloro i quali non rientrano nel matrimonio “classico” per fare in modo che anche la loro situazione venga riconosciuta: coppie omosessuali, poligami, matrimoni di gruppo eccetera.

Una lezione di libero mercato (e non solo): Cremona in Epoca Comunale



Di Camilla Bruneri e Tommaso Cabrini

Quanto conosciamo della realtà storica delle nostre città italiane? Molto, basterebbe aprire qualche libro di storia, fare più attenzione quando il museo propone qualche mostra di stampe antiche o quando la biblioteca acquisisce qualche nuovo volume, e saremmo tutti quanti più informati a riguardo. Viene dato molto spazio alle affascinanti storie che le nostre città hanno annoverato in età precomunale e comunale, ma poca memoria riserviamo loro per farne tesoro e imparare da un’epoca storica che erroneamente troppi considerano oscurantista e barbara.
Basti pensare all’emblematica frase medievale “Stadtluft macht frei”, l’aria della città rendere liberi, riferita alla legge secondo la quale un contadino fuggito dal suo feudatario poteva considerarsi libero (e quindi cittadino) dopo un anno e un giorno lontani dal proprio padrone. Ed è proprio partendo da questo presupposto di libertà che si fonda la storia comunale, che nel XII secolo in Italia si afferma con il suo massimo splendore, grazie soprattutto alle rivendicazioni indipendentiste e alle liberalizzazioni (nonché all’abbassamento e talvolta anche all’abolizione delle tasse) portate avanti dal potente ceto mercantile comunale. Anche una piccola realtà come Cremona, a quell’epoca, ha potuto annoverarsi (per un breve ma intenso periodo) come città indipendente, fondata sul commercio del sale, dei tessuti e delle carte da gioco (i trionfi, meglio conosciuti come tarocchi), nonché grazie ad una storia ormai quasi sommersa, come quella dell’accesso alla cultura.
Un utile archivio in cui trovare materiale a riguardo è il sito di Reti Medievali, nella sezione della didattica (http://fermi.univr.it/rm/didattica/fonti/bordone/indice.htm#sez2), dove abbiamo trovato questo interessantissimo pezzo dedicato all’organizzazione scolastica: nonostante la grande importanza rivestita dalle istituzioni ecclesiastiche cittadine, secolari e religiose, nell'organizzazione della scuola, occorre rilevare che caratteristica della città italiana fu la spontanea iniziativa degli studenti laici di raccogliersi attorno a un maestro e di riconoscerlo come capo della loro associazione.

giovedì 19 luglio 2012

Osservati Speciali

Spunti da leggere e commentare: nuove candidature e voglia di resistere, storie vere che sfatano antichi miti, sprechi (ma va!) e ancora una volta esempi elvetici di lungimiranza. Sembrerebbe retorico pretendere di capire se abbiamo veramente capito qualcosa di quanto sta accadendo...ebbene, dopo alcuni fortunati incontri avvenuti in questi ultimi dieci giorni, comincio a pensare che qualche speraza possa ancora esserci!

Articoli:
Incidenti: migliorano i privati, ma preoccupa la rete pubblica ; Nucleare e rinnovabili: ecco come si comportano gli svizzeri ; C'è un giudice in Friuli: per una web tv civica il tesserino da giornalista non serve ; Ogm a chilometro zero non sono nemici. Anzi... (conoscendo la mia personale antipatia al progetto, forse l'unica buona idea sostenuta da Expo 2015!); Lottieri: fuga dallo statalismo

Libri:
Elogio del silenzio e della parola, edito da Rubbettino


Servizio a cura di CentoFuochi&Caber

mercoledì 11 luglio 2012

Le tasse: un gioco da ragazzi!

Scartabellando e leggendo alcuni documenti per completare la mia tesi universitaria, mi sono imbattuta in un interssante diatriba tra giovani alunni delle elementari diligenetemente riportata dal famoso pedagogista e maestro Mario Lodi. Il fatto singolare è che tutto questo accadeva durante una lezione di artistica, mentre l'insegnante invitava i bambini a riflettere circa il dipinto di un artista astratto. I colori e le geometrie dell'opera ricordavano ai bambini un'officina e i paragoni, le idee e gli spunti di riflessione piovevano come un'acquazzone dalla classe. Nell'officina astratta giustamente, i bimbi, notavano la mancanza degli operai, ma c'era anche chi sosteneva stesse lavorando solo il padrone dell'officina e che certi sbuffi di colore fossero le scintille della saldatrice.
Mentre leggevo ammirando tanta fantasia, lungi da me il pensiero che la discussione potesse mutare tono, mi ritrovo nel bel mezzo di una lezione di economia aziendale tenuta da una bambina ai propri compagni. Per la verità, gli esperti sembravano decisamente i bambini, il maestro nel mezzo ad annotare l'osservazione di questo fatto stupefacente. Stupefancente per la lucidità dei bambini ad elencare una per una le voci di spesa di un'azienda, tasse comprese! Potrete capire come per me, umile studentessa di beni culturali, alle prese con una tesi sulla didattica dell'arte, imbattermi in un discorso come questo sia stato tanto ispirante: i bambini, nelle propria sconcertante semplicità, hanno sempre un asso nella manica più di noi adulti! E le efficaci parole di chiusura del maestro Lodi non possono non essere condivise.

giovedì 5 luglio 2012

Osservati Speciali

Spunti da leggere e commentare: la settimana (e non solo) ci parla di mondo del lavoro, sviluppo (e soprattutto sottosviluppo), scandali e diritti naturali. Questa settimana la Svizzera si è dimostrata la nazione più all'avanguardia nel progresso tecnologico, la Spagna ha vinto l'Europeo ma la sua condizione finanziaria sta solo peggiorando ed è un continuo spending review. Ma siamo certi di aver davvero capito qualcosa?!

Articoli:
Le risorse per la crescita; Clicklavoro, il sito del ministero che agli italiani costa 2 milioni di euro l'anno; Patria, Stato e Nazione: ecco il diritto all'autodeterminazione;
Un'antica lezione. il cittadino non è solo un elettore

Libri:
Non è un paese per giovani
Le nuove Garzantine in Ebook

Video:
Expo: "I bandi a società indagate"


Servizio a cura di CentoFuochi&Caber

martedì 22 maggio 2012

Macondo - parte I


Amo immaginare la mia famiglia così come la desiderava mio nonno Imerio, padre di mio padre.
Il nonno era nato a Casalbuttano, per la precisione a San Vito, provincia ovest di Cremona; parlava un dialetto farcito di quelle che gli abitanti di città chiamano espressioni biafole, ovvero campagnole, triviali, in altre parole rozze. Ma anche lui, come la nonna, che invece era nata nel quartiere dei pescatori e dei commercianti di sale (il quartiere di S. Pietro al Porto, pieno centro di Cremona), era cresciuto parlando italiano.
Il quartiere dove abitava mia nonna Marga da ragazza era quello in cui si parlava un cremonese che, come avrebbe detto suo padre, il mio bisnonno Nino, appassionato pescatore, era il vero cremonese. Quella lingua urlata tra le botteghe del mercato, tra i tavoli dell'osteria in cui si beveva il clinto (vino tipico, ormai scomparso) in scodelle di ceramica, quella lingua che senza difficoltà era compresa e parlata dalla vecchina per chiedere una ricetta medica al dottore e che si estendeva dal Po al Torrazzo, per frammentarsi in miriadi di inflessioni differenti ma sostanziali, talvolta anche da quartiere a quartiere.
Cremona non è cambiata poi molto oggi, qualche costruzione più recente svetta dall'orizzonte ma il nostro Torrazzo è ancora il più alto e quel sogno che il nonno coltivava, di riunire tutte queste sfumature dialettali in una grande cascina in cui tutti i Natali la famiglia si sarebbe ritrovata, come se si stesse preparando a una vacanza montana, purtroppo non si è mai realizzata.
I miei nonni hanno abitato in città da quando si sono conosciuti, e in particolare nel quartiere di Porta Venezia, del quale il nonno è stato anche presidente dalla metà degli anno '80 all'inizio degli anni '90, ed è sempre stato un grande appassionato di dialetto, soprattutto di poesia, infatti in quegli anni era una tradizione riunire le poesie di ogni quartiere e farne una pubblicazione. Oggi queste raccolte vengono pubblicate sul nostro quotidiano, che raggiunge facilmente non solo la provincia ma anche molte zone di vacanza particolarmente amate dalla popolazione cittadina: troviamo La Provincia (questo è il nome della testata) a Massa-Carrara, a Bormio, nella Val Camonica e in Trentino, meta anche delle nostre vacanze.
Ma la storia della mia famiglia è stata molto più avventurosa e credo che il nonno desiderasse poterla riunire tutta anche per questo profondo motivo: i Bruneri, o forse farei meglio a chiamarli Brunner (di cui conosciamo anche il significato etimologico: moneta scura), non sono originari di Casalbuttano ma del Tirolo, terra per me quasi mitica e che rappresenta il vero ritorno alle origini. La famiglia Brunner lavorava per gli Asburgo con il poco onorevole compito di gabellieri imperiali e all'inizio dell'800, a causa di una rivolta, si è ritrovata poco distante da Cremona, fuggita per sempre dalla terra degli avi, come la chiama mio padre. Senza più un lavoro o una patria, i Brunner si sono impegnati e assieme alle altre poche famiglie della zona hanno potuto fregiarsi di essere annoverati tra i fondatori del paese di Casalbuttano, dove al tempo una cascina c'era veramente. Da gabellieri a salumieri, da Brunner a Bruneri, una vicenda che in fin dei conti ha afflati anche piuttosto attuali.
Siamo venuti a conoscenza di questa avvincente storia solo recentemente, quando uno storico cremonese ha pensato di pubblicare alcune ricerche genealogiche che illustrassero la nascita e gli abitanti del paese. E' bastato però perché l'ultima generazione Bruneri (io e il mio unico cugino diretto, Federico) potesse crescere con questa consapevolezza: io ero solo una bambina quando uscì la pubblicazione. Così il mio sogno, a differenza di quello del nonno, si è trasformato: sarebbe splendido poter spostare la mitica cascina Bruneri nella terra degli avi e colmare finalmente quell'esigenza di patria che, per me l'Italia non ha mai rappresentato, anche se riconosco Cremona come la mia casa e non solo come un punto segnato su di una carta geografica.

Tra Pil, consumi e spesa pubblica: ma a che serve lo Stato?


Una serata passata al tavolo di un pub, una birra, quattro chiacchiere con gli amici, atmosfera rilassata (stranamente perché era Natale, ma sapete, con questa crisi...!), un tovagliolino sul quale mai ci saremmo immaginati di metterci a discutere formule matematiche e libertà. Ebbene: è successo!
Attorniati dal baccano del locale, io e Tom parlavamo del più e del meno mentre il barista dimenticava la penna sul nostro tavolo e io cominciavo compulsivamente a giocarci per passare il tempo. Non contenta scarabbocchio qualcosa su un tovagliolo e questo forse fa scattare qualcosa nella mente di Tom, che fino a poco prima mi stava parlando della chiusura dell'iva di novembre in ufficio. Così è nato l'articolo di seguito, che non cambierà il panorama delle teorie economiche, ma certamente apporterà il proprio contributo, in un tragico periodo storico durante il quale nulla appare di poca importanza e ogni rimando al passato si rivela essere incredibilmente attuale.
Lui stesso mi ha poi raccontato la celebre teoria della curva di Laffer che, leggenda vuole, fosse stata spiegata in un locale pubblico, con un tovagliolo e una biro.
Non abbiamo la pretesa, con questo articolo, di svelare scoperte sensazionali, anzi: l'abbiamo scritto proprio perché l'ovvietà giace sotto gli occhi di tutti tutti i giorni e noi stiamo provando ad osservarla davvero, questa ovvietà.
Ci siamo domandati: ma ai keynesiano serve davvero lo Stato?

Lezioni libertarie - Sullo Stato


La legge nasce con l'intento di tutelare i diritti naturali dei più deboli e punire chi non li rispetta.
Senza entrare nel merito dell'identità del diritto di natura, si deduce quindi che tutti, o almeno la maggior parte, dei soggetti che subiscono la legge siano potenzialmente pericolosi e capaci di difendersi da soli.
Lo Stato si avvale della legge per garantire ai propri cittadini strade, abitazioni, scuole, ospedali, finanche divertimenti più sicuri. Che succede però quando i rapporti di forza si invertono? Quando lo Stato comincia ad usare la legge per tutelarsi? Da chi si deve difendere lo Stato?
Dai criminali, esattamente come i suoi cittadini. Questi criminali si chiamano evasori fiscali e lo Stato ci fa credere che siano pericolosi anche per noi perché lo Stato siamo noi.
Ma chi dovrebbe garantirmi di poter far trovare il pane sulla tavola ai miei figli ogni giorno? Lo Stato, che ci deruba in virtù della caccia all'evasore? Che cerca di convincerci che sia giusto pagare le tasse perché quel pane, prima di essere del panettiere che me l'ha venduto, è del “cittadino panettiere”, la cui attività necessita di guadagno per pagare le tasse allo Stato che ne legittimano l'esistenza? E' esagerato quindi, pensare che se lo Stato necessita di leggi per tutelarsi, sia diventato il soggetto debole?!

Qualche giorno fa mi è capitato di sfogliare un saggio dedicato a Socrate, mentre cercavo materiale per alcuni studenti che mi hanno chiesto delle ripetizioni in filosofia, e mi sono ritrovata a confrontarmi con il Socrate “uomo”, con il padre della filosofia, la cui vita ci permette di comprendere le motivazioni che lo portarono alle sue scelte: mai nessuno, prima di lui, fu tanto coraggioso (o coerente) da affrontare le accuse mosse dal Senato ateniese, preferendo la morte all'esilio.
Socrate venne accusato di essere “nemico della Città” e solo da pochi venne invece riconosciuto come “filospartano e nemico della democrazia corrotta”*, braccio destro della politica.

Lezioni libertaria- Sulla democrazia (e altre leggende)


Pensiamo forse di vivere in "democrazia"? Ma lo sapete cosa è riuscita a fare la democrazia fino a questo punto?! Sicuramente è riuscita a farsi sopravvalutare.
Stando alla definizione del vocabolario, il termine appare ammantato da positivita' e melanconia, è qualcosa che dovrebbe farci bene, farci sentire tutti uguali...tutta colpa del romanticismo! Ma il peggio non è dato neanche da questo. Servendomi delle parole di un grande pensatore dell'autonomia quale è Hoppe: "Democracy has nothing to do with freedom. Democracy is a soft variant of communism, and rarely in the history of ideas has it been taken for anything else”. La democrazia non ha nulla a che fare con la libertà, è una variante soft del comunismo e raramente nella storia delle idee è stata considerata diversamente. Nella storia sappiamo anche noi quale sia stato il suo successo, purtroppo pero' i male informati a suo carico sono ancora troppi e oggi si stupiscono di come, in nome della suddetta, si possano legittimare rincari, frodi, furti. Sappiamo anche come sia andata a finire con il comunismo?
Se siamo sull'orlo della guerra civile, cara ai catastrofisti, che ancora non hanno capito che un sistema come questo è stato progettato per durare, attraverso la famosa legittimazione di atti normalmente considerati criminali (come ogni dittatura che si rispetti), è perché ci si ostina a sostenere che sia giusto e necessario sacrificare il cittadino per salvare la democrazia.
Ma come può, ciò che dovrebbe tutelarci, vivere della nostra sopravvivenza? Non trovate ci siano, a questo proposito curiose assonanze con forme di governo dalle quali la nostra "democrazia" ha promesso di difenderci?
Forse nessuno nella storia si è mai trovato davvero a vivere in una "democrazia", dato lo scarso impegno idealista dei cittadini che non si pongono il problema di comprenderne il reale significato, in potenza non necessariamente cattivo, solo imperfetto, diciamo pure impreciso (almeno in occidente). Non andiamo troppo lontano ed esaminiamo la Costituzione, principio guida dello stato italiano, testo grandemente sottovalutato, che qui però dimostra la propria desolante debolezza e impotenza.
L'articolo 52 (Titolo quarto) in particolare fa uso di termini poco appropriati per quella che era l'idea ateniese di democrazia, ben diversa dalla sua applicazione moderna. "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino." Cos'è "patria" e perché "sacro",in virtù di cosa? Quella di Bakunin forse, stessa lingua-stessa gente-stessa storia ma niente bandiera? No, nemmeno quella perché la bandiera in Italia c'è eccome e ci si ricorda del suo significato solo quando fa comodo.
"Il servizio militare è obbligatorio (...)" ora non più ma non mi sembra che il carattere d'obbligatorietà di questa norma lasci particolare spazio alla libertà personale, pur non pregiudicando la successiva carriera lavorativa (che, tempo un solo articolo e diviene fonte di ricchezza economica per lo Stato, attraverso un altro obbligo,quello del pagamento delle tasse).
E ancora "L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica." Vediamo di soffermarci su ogni singolo termine: con "spirito" eccoci tornati al carattere trascendente della democrazia, che dovrebbe invece rappresentare la più terrena delle idee, essendo per definizione il governo del popolo. Quando il termine "democratico" segue un concetto come quello di spirito, dobbiamo forse pensare che tale idea ci sia stata ispirata da un'entità divina? Vero è che l'Italia è uno stato laico a tolleranza religiosa, ma mescolare sacro e profano non sempre è un bene, sicuramente a livello di comprensione. Ciò non disturberebbe ma i primi semi democratici provengono da una realtà ben lontana e molto smaliziata in materia divina (basti pensare ad uno dei protetti di Pericle, Anassagora eretico ante litteram)... Non saprei dire se sia effettivamente un bene essere giunti a comporre un testo utile e concreto e che di spirituale dovrebbe avere poco, inserendovi concetti tanto astratti. Sarebbe sicuramente un bene se fossimo capaci di gestirlo.

E questo famigerato divin-concreto "spirito democratico" in che rapporto si trova con la Repubblica? Il testo dice che "si informa", forse il passaggio più criptico di tutto l'articolo. Non "con"-forma, non "ri"-forma, ma "in"-forma. Vocabolario alla mano alla voce "informare": "dar forma" , "istruire", e quindi "dare notizia", dotare di forma e come esempio citiamo "l'anima informa il corpo". (Treccani) Non "contro" ma "per", dunque l'esercito prenderebbe forma a partire dallo spirito democratico, per la sacra difesa della Patria (o Repubblica), questo dovrebbe significare. Ebbene mi pare di aver esaurito il concetto in una riga, con le medesime parole, senza aver spiegato in realta' nulla più dell'articolo stesso, ma sicuramente in una forma più retorica.

Possiamo tutti essere Robin Hood!

Ho trascorso la mattina in una scuola elementare del cremasco, dove avrei dovuto affrontare alcune ore di un tirocinio che si sta rivelando essere l'esperienza più preziosa che la mia università non è stata capace di darmi. Il laboratorio musicale al quale ero stata assegnata era sospeso perchè la scuola ospitava alcuni ragazzoni inglesi che, per lavoro, raccontano fiabe ai bambini, ovviamente in inglese. Hanno raccontato la fiaba di Robin Hood, coinvolgendo i loro piccoli spettatori con coreografie e canzoni.
Ne ricordo una in particolare: "Robin Hood, Robin Hood, he's fast, he's strong and he's good. He takes money to the rich and he gives to the poor. Robin Hood, Robin Hood", faceva più o meno così.
I bambini (pochi in verità perchè la scuola è molto piccola) cantavano felici seguendo le indicazioni della valchiria bionda che raccontava loro la storia e che li invitava ad inneggiare allo Sceriffo di Notthingam come
ad un "loser". Nessuno di quei bambini si sarebbe mai sognato di credere il contrario!
Crescendo, la maggior parte di questi bambini si dimenticherà di aver cominciato ad imparare l'inglese sentendosi raccontare la fiaba di Robin Hood,si dimenticherà perchè Robin fosse così forte e furbo e buono, si dimenticherà forse anche perchè per loro fosse IL BUONO, per buttarsi tra le braccia dello
Sceriffo, senza nemmeno saperlo. Robin Hood rimarrà un'affascinante leggenda. O forse no?!
Mentre le giovani maestre si complimentavano dell'efficacia di questo metodo di insegnamento, mi sono inevitabilmente domandata perchè si raccontino fiabe ai bambini? Per insegnare loro qualcosa, ovviamente! Che lo si faccia in inglese o in italiano, queste fiabe sono sempre le stesse e raccontano sempre le stesse storie, con gli stessi personaggi, la cui bontà, il cui coraggio e impegno rappresentano un esempio a cui ispirarsi, perchè quei valori di lealtà e solidarietà rimangano immutati generazione dopo generazione. La cosa importante quindi non è il metodo, o la lingua usata, ma la speranza che questi racconti riescono a suscitare in questi piccoli esseri umani, che oggi hanno provato ad immaginarsi tutti Robin Hood, imbracciando un arco e scoccando una freccia a quel vigliacco perdente dello Sceriffo.

Non vi dirò...

Esiste forse un modo giusto per cominciare un libro, esiste una frase, un'espressione, una parola chiave? Esiste, in definitiva, qualcosa di così importante da dire che sia degno di essere scritto prima di ogni altra notizia?! Probabilmente sì ma io non ve lo dirò, in parte perchè è un segreto professionale
(se vi svelassi l'ingrediente segreto della ricetta che so cucinare meglio, e con la quale vi stupisco tutte le volte che vi invito a cena, ve la rivelerei forse?!), in parte perchè potrebbe non piacervi, in parte perchè la sapete già e potreste scriverla voi al mio posto.
Ho investito molte ore in pensieri perigliosi per costruire questo progetto, passando il tempo a farmi domande chiedendomi cosa ma soprattutto come potessi raccontarvi quel che ho da raccontarvi.
Il risultato?! Avevo così tante cose da raccontarvi che sono stata tentata spesso di lasciar perdere,
schiacciata dal senso di inferiorità e dalla sindrome da foglio bianco che gli amanti della scrittura conoscono bene.  Sapevo che la parte più difficile sarebbe stata esattamente l'inizio, soprattutto perchè aspettavo il fatidico "momento giusto", che ovviamente tardava ad arrivare. Sapevo che sarebbe stato l'inizio di qualcosa e tenevo a giocarmi bene le mie carte, con un incipit degno del suo ruolo. Sapevo anche altre cose, molte cose, ma nessuna sarebbe stata quella giusta per un incipit. In breve mi sono accorta che le cose che non sapevo dirvi erano molte più di quelle che avrei saputo dirvi, e dato che il problema era principalmente quantitativo, ho cercato a questo problema una soluzione cumulativa per non dirvi niente.
Per esempio, non vi dirò che il mio sogno da bambina era quello di fare qualcosa di grande e importante.
Non vi dirò che il mio sogno adesso, da "diversamente bambina", è ancora quello di fare qualcosa di grande e importante.