Di Camilla
Bruneri
Un parto
difficile e un bambino che, con il tempo manifesta difficoltà nella parola e
nel movimento. Questa è la storia di Elia, pubblicata su Vanity Fair della
scorsa settimana. Il racconto a lieto fine di due genitori che hanno un bambino
affetto da disprassia, una sindrome poco conosciuta in Italia. Si tratta di un
disturbo della pianificazione dell'atto motorio che causa un deficit nel
percorso di apprendimento e verbalizzazione. Chi ne soffre, pur essendo dotato
di normale intelligenza, fatica a parlare, a usare un linguaggio adeguato al
contesto, a mettere insieme gli elementi della realtà, e così diventa
complicato anche correre, andare in bici, diventare autosufficienti.
Il
protagonista di questa storia è Elia, un bambino che ora ha 5 anni e mezzo e
che soffre di questo disturbo. I genitori, Natalia e Alessio Pizzicannella,
raccontano a Vanity, di essersi trasferiti in Svizzera, a Locarno perché
avevano capito che in Italia, il piccolo non sarebbe stato seguito seriamente
dalle strutture pubbliche. Da settembre Elia andrà all'asilo, all'Istituto
Sant'Eugenio, dove vengono seguiti anche bambini con disturbi del linguaggio e
dell'apprendimento. Natalia e Alessio raccontano la sensazione di stupore
provata per l'accoglienza ricevuta e l'aiuto e la disponibilità manifestati
dall'Istituto e dal Supporto Pedagogico della città. Non solo: oltre alle cure
(per via privata) ricevute in Italia, l’istituto svizzero ha anche consigliato alla
famiglia di rivolgersi ad un osteopata craniale che, con due sole manipolazioni
delle ossa craniche, ha permesso al bimbo di ricominciare a muoversi
normalmente. Ora Elia sfreccia in bicicletta senza rotelle.
Merito dei
suoi miglioramenti è stato anche il suggerimento della dottoressa italiana, Marta Magliocchetti, che
ammoniva i genitori circa il ritorno a scuola di Elia. All’asilo infatti il
bambino non era seguito adeguatamente, abbandonato a sé stesso Elia continuava
a peggiorare vanificando i risultati ottenuti con i suoi terapisti (privati). La
disprassia infatti, se adeguatamente gestita, permette comunque di vivere
normalmente, recuperando al cento per cento le funzioni motorie (pensate che
anche John Lennon, Walt Disney, Steven Spielberg e Quentin Tarantino
soffrono/soffrivano di questa sindrome).
Oltre alla
straordinaria umanità (o professionalità, che non è poco) dimostrata dalle
strutture svizzere, il bilancio peggiore che traiamo da questa storia è senza
dubbio la spaventosa inefficienza della scuola pubblica italiana.
L’incompetenza del personale scolastico, ulteriormente vessato dai continui
tagli agli insegnanti di sostegno, la mancanza di strutture e figure adeguate
sono problemi con i quali le famiglie hanno a che fare ogni giorno. Ma le
scuole private (comunque finanziate dallo Stato) in Italia sono ancora molto
costose, così come le cure per bambini come Elia, mentre in Svizzera un’
istituto come il Sant’Eugenio ha chiesto ai genitori del bambino solo 450€ in
franchi svizzeri per il primo anno.
Perché
accade questo? Perché in Italia la scuola funziona così male? Non è solo colpa
della mancanza di concorrenza tra scuole che propongano metodologie educative
all’avanguardia, cosa che invece accade in Svizzera. La colpa è anche del
sistema scolastico italiano che, nella strutturazione dei gradi di studio non
differisce molto, altro discorso però sono le competenze statali.
In Svizzera
infatti, la responsabilità per la formazione è condivisa da Confederazione,
cantoni e comuni. Ciò permette di tener conto delle diverse lingue e culture
del paese. La responsabilità principale spetta tuttavia ai cantoni: in Svizzera
esistono perciò 26 sistemi scolastici, con caratteristiche diverse, anche se
uniti da alcuni principi di base comuni.
La scuola dell’obbligo
si trova in un periodo di importanti riforme: nel 2006, le cittadine e i
cittadini svizzeri hanno approvato a larga maggioranza un articolo
costituzionale sulla formazione che fissa le linee guida per una armonizzazione
dei sistemi scolastici cantonali. Se i cantoni non dovessero riuscire a trovare
una soluzione, la Confederazione ha le competenze per imporre una soluzione
nazionale. Gli sforzi di armonizzazione dei sistemi scolastici non fanno però
l’unanimità. Le proposte di introdurre l’obbligo di frequenza alla scuola per
l’infanzia a partire dai quattro anni di età e l’insegnamento di due lingue
straniere nella scuola primaria hanno suscitato aspre polemiche. Quindici
cantoni hanno aderito entro la fine del 2010 al concordato HarmoS, elaborato
dalla Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica educazione.
Altri sette cantoni l’hanno respinto. I progetti di armonizzazione dei sistemi
scolastici mirano a garantire la qualità dell’insegnamento a livello cantonale
e a facilitare la mobilità degli allievi all’interno del paese. (Il testo qui
riportato è stato preso dal sito: http://www.swissinfo.ch
)
Non solo i
cittadini sono stati chiamati a dire la loro su di un argomento così delicato,
in virtù della democrazia diretta dimostrata dai cantoni (ancora di stampo
medievale, come dire “coppia che vince non si cambia”), ma le decisioni prese
non hanno coinvolto tutti i cantoni, lasciando la libertà a chi non si sentiva
in linea con le proposte di non aderire. Non contenti, gli svizzeri hanno anche
strutture universitarie che lavorano a pieno ritmo sul benessere del bambino,
su metodi cognitivi innovativi basati sull’apprendimento motorio e il gioco.
Questi non sono più soltanto esperimenti ma vere e proprie strutture
scolastiche di grande successo, spesso private e non finanziate dallo Stato,
quindi in forte concorrenza tra loro e con il pubblico (purtroppo alcune di
queste hanno anche costi piuttosto elevati).
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